Festival del Sud, volontariato che non fa sistema

di Ruggero Cappuccio
La parola Festival risulta tra i vocaboli più inflazionati tra quelli impiegati nell’intero pianeta. Il suo uso ha percorso come un brivido la spina dorsale del globo terrestre, infiltrandosi tra le vite del Sud Africa e i capitalismi degli Stati Uniti, oscillando tra gli epicentri della vecchia Europa e le industrializzazioni emergenti dell’Asia. Festival è termine onnivoro che ha compreso i settori dello spettacolo e dell’agroalimentare, le letterature e le filosofie. In genere si tratta di vetrine – altra espressione mutuata non a caso dal mondo del commercio – in cui appaiono allineamenti di prodotti che sembrano dominati più dalla sindrome della moltiplicazione numerica dei fatti esposti, che non dalla loro profonda motivazione ad esistere per intercettare la sensibilità dell’individuo. Al teatro era cara la parola Rassegna, anch’essa alludeva ad una sequenza di messinscene, ma riunite sotto il segno di un progetto accompagnato da un obiettivo. I festival che non vengono celebrati in Italia, come quello di Avignone, Salisburgo e Edimburgo, si distinguono per la stabilità delle strutture di produzione e organizzazione e sono nutriti da consistenti investimenti economici pubblici e privati molto ben concertati. In Italia, come nel settore museale e archeologico, le rassegne estive soffrono le solenni disattenzioni dello Stato, delle Regioni, dei Comuni. Scarsissimi i fondi a disposizione. Ma soprattutto è sconosciuto da noi il concetto di programmazione. Quando una manifestazione si vede assegnare esigue risorse a pochi giorni o poche ore dalla sua inaugurazione, tutti i discorsi che puntano all’incentivazione del turismo e ai ricavi dei settori alberghieri diventano una chimera. Iniziative storiche come Spoleto, come le Orestiadi di Gibellina, come il Festival di Taormina, annaspano tra incertezze e vertigini. I nostri Enti Pubblici approvano i bilanci in primavera inoltrata, compromettendo la progettazione degli artisti e orientando il direttore di una kermesse verso il perfezionamento di facoltà medianiche atte a prevedere che programma potrà essere articolato nella notte profonda dei preventivi.
In particolare i festival del Sud, forti dell’abnegazione inventiva dei malcapitati addetti al disegno progettuale, lavorano sul condizionale. Agli artisti che intendono coinvolgere domandano: “Parteciperesti alla nostra manifestazione ammesso che un momento prima che essa abbia inizio, l’ente pubblico che ci ha promesso i fondi dovesse assegnarli? L’artista, generalmente afflitto da disturbi masochistici, talvolta risponde di sì. Ma a questo punto scatta il secondo quesito: “In tal caso accetteresti di essere pagato quando l’ente pubblico in oggetto dovesse decidere di liquidare i fondi a nostro favore in un giorno, mese e anno non determinabile? L’artista al telefono si produce in un fenomeno di levitazione, conferma una mezza dozzina di teorie tibetane sull’abolizione dell’io, accede alla disincarnazione e risponde di sì. Ecco, il ritratto del Sud si fonda sull’eccezionale abnegazione di alcuni singoli capaci di inventare dal nulla. Ma niente diventa metodo, niente diventa sistema. Il coma indotto di Montalcino, Volterra, Polverigi, l’estinzione del bellissimo Festival Palermo Novecento, l’agonia di altrettante realtà storiche in Campania, testimoniano il totale disinteresse delle classi dirigenti per la cultura della scena. Negli ultimi anni un rilievo degno di attenzione è sta
to assunto dal Napoli Teatro Festival Italia. Il suo potenziale, considerato lo sfondo spaziale a disposizione innescato nella città–teatro del mondo, è naturalissimo. Per il suo futuro occorrono guide manageriali e artistiche di respiro internazionale, affinché la manifestazione parli all’intero pianeta oltre perimetri e barriere politiche. A gran parte del potere imperante interessa la subcultura televisiva del consenso, quella che narcotizza il pensiero e lo annienta. Eppure, segnali selvatici arrivano da piccoli centri della Sicilia, della Calabria, della stessa Campania, da parte di giovani generazioni che intendono sfidare le derive di massa. Molte imprese si sostanziano sul volontariato puro e danno lezione di qualità.Il male maggiore, nell’ultimo decennio è che la protratta crisi economica è diventata un robusto pretesto per azzerare la cultura. Il problema centrale, però, non riguarda solo la mancanza di risorse, ma più spesso la mancanza di idee. La generosità di scienziati, attori, registi, scrittori, è più forte di quanto si immagini; intercettarli intorno ad un progetto comune è soltanto questione di volontà. Anche con poco si può fare moltissimo, a condizione che i direttori dei festival disegnino percorsi con identità chiare e obiettivi precisi, privilegiando soprattutto il mondo degli invisibili.
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