“La tradizione viva è quella che non imita”,Martone a tutto campo tra La morte di Danton e il ritorno a Napoli con Carmen. “Il teatro resiste, e non è virtuale”


di Anita Curci 
Dopo Noi credevamo e Il giovane favoloso, Mario Martone torna al teatro e approda a La morte di Danton di Georg Büchner. Il dramma, grande testo sulla Rivoluzione francese, in Italia fu messo in scena da Strehler negli anni 50 e ora, con i suoi 30 personaggi, diventa progetto ambizioso dello Stabile Teatro Nazionale di Torino, dove debutterà il 9 febbraio. “L’ingiustizia produce rivoluzione, si trasforma in metodo, diventa macchina feroce e a sua volta provoca ingiustizia. Da qui lo smarrimento di ieri e di oggi che io ho ritrovato leggendo Leopardi e Büchner”, spiega il regista napoletano, che del teatro pubblico torinese è il direttore.
Martone, come mai ancora con la rivoluzione?
 “Da tempo pensavo di portare in scena Danton e ci arrivo non a caso dopo Noi credevamo e il film sul poeta di Recanati. È un personaggio affascinante perché mette in crisi il senso stesso della rivolta, entrando nel territorio delle contraddizioni dell’uomo; ma è anche molto attuale in un’epoca piena di rivoluzioni. Non ci sarà bisogno di attualizzare il testo. Ogni considerazione avverrà nello spettatore”. Le sue opere seguono un filo concettuale che le tiene unite? 
“Il mio lavoro è come un bacino dove le opere si parlano a distanza di decenni, per esempio la Carmen parla con L’Otello fatto anni fa con Falso Movimento. Mi muovo seguendo rotte diverse e creando dialoghi tra il passato e il presente”.
 In Teatro di guerra, che ha aperto le celebrazioni per i 30 anni di Sala Assoli, a Napoli, Servillo tratteggia un ritratto molto negativo di come un direttore di teatro pubblico non dovrebbe essere. Una denuncia precisa?
 “Teatro di guerra aveva a che fare con una critica della gestione pubblica del teatro di quegli anni… eravamo nel ’96. La critica riguardava anche le questioni di giustizia e di potere in generale, e non aveva un riferimento temporale. Il fatto che allora non ci fosse uno Stabile mi concedeva la libertà, senza suscitare problemi di interpretazione, di inventare un personaggio come quello interpretato da Servillo”.
Com’è cambiato il teatro da quel tempo ad oggi?
 “Risente di tutto ciò che è cambiato da allora. Le varie crisi hanno modificato la società in modo reazionario, conservativo, creando difficoltà a chi vuole sperimentare. Ma se l’ufficialità ha creato chiusure, si sono anche generati i presupposti per fare cose forti. Il teatro in Italia, tradizionale e d’innovazione è molto vivo. E resta, rispetto al cinema, l’unica esperienza che lo spettatore può godere in modo non virtuale. Il teatro rimane una pratica reale, oltre a rappresentare una sacca di resistenza. Il fatto stesso che il pubblico vada a sentire e vedere attori in scena in situazioni imprevedibili, dove ogni sera si può sbagliare, cambiare, migliorare, fa del teatro un’arte che… respira. E in questo non si è trasformato”.
Che cosa pensa della riforma che ha istituito i Teatri Nazionali?
 “Ha aspetti positivi e altri da cambiare. Avevamo uno schema bloccato da decenni e bisognava aggiornarlo. Il decreto andrebbe migliorato in più punti. Specialmente in quelli dove si parla di libertà di coproduzione. Come Stabile producevamo assieme a compagnie indipendenti, ed erano interessanti la creatività e la dinamicità che quella sinergia riusciva a realizzare. Con grave danno, oggi questo non è più possibile. Poi, c’è la questione delle tournée: gli spettacoli prodotti dai Teatri Nazionali non possono girare più di tanto. Altro grave danno. La Carmen da me diretta sarebbe stata presa un po’ dappertutto, e invece dobbiamo contenerci e la si vedrà solo a Padova, Verona, Ferrara, e al Bellini di Napoli dal 12 al 24 aprile. Questo è frustante per la compagnia, gli attori e gli
spettatori, oltre che economicamente svantaggioso. La tournée è una importante fonte di autofinanziamento. Tutto ciò che impedisce la circolazione di esperienze e di idee, è negativo. Non bisogna creare gabbie”.
 Lei è sempre sensibile alle sue radici napoletane e alla tradizione del suo popolo. Qual è la strada da seguire per rinnovarla senza ripeterla stancamente?
 “Ci ho messo tempo ad affrontare Napoli col mio lavoro. Il primo spettacolo sulla mia città fu Rasoi, del ’91. Ho fatto altre esperienze, confrontandomi con l’avanguardia americana e quella europea; è stato come un viaggio di formazione, prima di approdare alle mie origini. Ho voluto sperimentare ciò che era diverso da me, per guardare poi la mia terra in modo non scontato. Se si procede per imitazione, si rischia di essere ossessivi. La nostra è una cultura di morti e di rinascite, cambiamenti e rivoluzioni. Bisogna tener viva quella tradizione che insegna a rivoltare tutto e non a imitare”. Carmen, per esempio, è un omaggio alla grandezza della cultura napoletana. Pensa ad altre operazioni simili?
 “In questo momento no. Il teatro napoletano è un prezioso contenitore da cui attingere. E Carmen, riscritta da un grande drammaturgo come Moscato, ha a che fare con quello scrigno”.

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