Aspettando Godot, di Samuel Beckett- regia di Maurizio Scaparro, con Antonio Salines e Luciano Virgilio- Lo spettacolo è andato in scena al Teatro Nuovo di Napoli dal 27 al 31 gennaio
Napoli- Parlare di uno spettacolo come Aspettando Godot può apparire inutile, o addirittura superfluo, di
fronte a tanti e tanti autori e allestimenti che partendo dal testo beckettiano
hanno sviluppato illustri drammaturgie durante tutto il ventesimo secolo.
Perché di Aspettando Godot, nel bene
e nel male, si potrebbe dire di averne discusso fin troppo a lungo. Ma il testo
di Beckett, nonostante abbia più di sessant’anni di età, riesce sempre a
evocare nuove riflessioni, nuovi dibattiti, una nuova visione critica
dell’opera che restituisce la sensazione di vedere qualcosa di così crudelmente
attuale che va oltre il reale, diviene quasi iperreale per diventare talvolta
surreale ma spietatamente tangibile.
Aspettando Godot
evoca permanentemente il senso di attesa, di un vuoto che ciascun individuo
cerca di colmare con fasulle convinzioni, con realtà virtuali che, col passar
del tempo, diventano quasi delle convinzioni assurde, pretestuose, facenti
parte di un vuoto esistenziale che tutto cerca ma mai nulla trova. “Tra un istante tutto svanirà e noi torneremo
soli nel cuore della solitudine” afferma Vladimiro: tutto si cela in una luce
che non rischiara, non illumina la verità né rende razionali i pensieri umani,
ma che nulla è se non un tramite, una finta speranza per l’animo umano. La
stessa nascita è per Beckett una dannazione poiché l’uomo, dal momento della
sua nascita, può già di per sè ritenersi dannato e attendere senza potere
alcuno l’arrivo della morte che possa alleviare il suo stato di angoscia.
Tutto in Aspettando
Godot è vacuo, tutto si perde in un nulla: le parole, le azioni, il
quotidiano, tutto perde la sua ragione di “essere”, quasi non lo si vuol capire
neanche più il perché, poiché è anche inutile domandarsi il significato
tautologico delle cose. Scaparro decide infatti di ambientare le vicende dei
due barboni, Vladimiro ed Estragone, all’ombra della Tour Eiffel come simbolo
della cultura europea generalmente considerata. Le stesse nostre radici europee
vengono infatti considerate del regista come dimenticate, perdute in un oblio
nel quale nemmeno più noi ci domandiamo il reale perché di questa perdita di
identità collettiva a favore invece di un corpuscolarismo di idee individuali e
di credenze personali che non cercano l’apertura all’altro “umano”, ma restano
radicate come penose convinzioni nelle nostre esistenze.
Vladimiro ed Estragone interrogano l’umanità, vivono in un
passato vicino ma predicono il futuro dell’umanità tutta, sono barboni ma
parlano da profeti del nuovo millennio. Ecco la forza del teatro di Beckett, ma
dell’opera in particolare, che nel caso in questione si avvale di due illustri
interpreti come Antonio Salines (Estragone) e Luciano Virgilio (Vladimiro),
affiancati dalle convincenti prove attoriali di Edoardo Siravo (Pozzo), Enrico
Bonavera (Lucky) e Michele Degirolamo (il ragazzo). La regia di Scaparro fa
prevalere proprio la bravura degli interpreti su orpelli scenici, restituendo
un senso al “non senso” delle parole, cercando di collocare la parola e il
movimento come centrali nella messa in scena. La scenografia di Francesco
Bottai è arida, essenziale ma credibile, restituendo quell’idea di vuoto e di
solitudine nella quale i due protagonisti sono avvolti. La produzione è firmata dal Centro d'arte Contemporanea del Teatro Carcano di Milano.
Un cast che mette in scena un allestimento senza dubbio
molto apprezzato dal pubblico e che soprattutto conferisce una visione del
testo beckettiano lungi da inutili virtuosismi a livello interpretativo: è solo
con la con la più pura semplicità di recitazione che questo testo restituisce allo spettatore
il significato che l’autore vuole trasmettere. Uno solo però dei tanti
significati che questo testo può trasmettere, perché, come le grandi opere di
teatro sanno fare, esse creano dubbi nella realtà e risposte nell’incertezza.
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