"Per portare a Napoli il professor Higgins ho inventato il cockney partenopeo"

Di Anita Curci

Pigmalione di George Bernard Shaw ispirato al mito di Pigmalione di Ovidio, narra la storia del professore inglese di fonetica Henry Higgins che scommette con l'amico colonnello Pickering di riuscire a trasformare la fioraia Eliza Doolittle in una raffinata donna della buona società insegnandole etichetta e accento aristocratico.
A tradurre la commedia e a traghettarla dalle rive del Tamigi a quelle di via Partenope per il Teatro Nazionale di Napoli che produce lo spettacolo in scena al San Ferdinando dal 2 al 20 marzo, è il drammaturgo napoletano Manlio Santanelli, che chiarisce: “Non si è trattato di una semplice traduzione ma di un vero e proprio trapianto del Pigmalione di Shaw dall’organismo londinese a quello partenopeo. Questo ha comportato un’operazione che non si è limitata a tradurre le parole, anche perché non esistono gli equivalenti. Pigmalione si basa sulla maieutica. Il professore Higgins deve trasformare il linguaggio rozzo e popolano di Eliza, che parla cockney, in un parlare raffinato, degno di essere ascoltato dai nobili”.
Santanelli, che operazione ha dovuto fare sul testo originale?
“Ho dovuto fare un adattamento geopolitico prima ancora che teatrale. Il professore ad esempio, invece di chiamarsi Higgins,
si chiama Puoti, e il suo compagno Maffei che non può venire dalle Indie, colonia inglese, come scritto da Shaw, lo faccio venire dall’Eritrea. Quando Eliza attraversa la città e tutti si voltano a guardarla abbagliati, non potevo ripetere quanto prescritto nell’originale che tutti si voltavano ad ammirarla come se si trattasse della regina Vittoria. Ho dovuto chiaramente fare un salto in un contesto napoletano che poteva essere quello di Lady Hamilton. Così, nella mia traduzione, quando la fioraia passeggia per Napoli, tutti la guardano ammirati come si poteva ammirare Emma Hamilton mentre attraversava la città per andare a trovare la regina Maria Carolina”.
La difficoltà più grande?
“Quella di tradurre il cockney, non essendo un dialetto ma una lingua gergale che i filologi chiamano idioletto, ibrido tra idioma e dialetto, uno slang. Ho dovuto immaginare un napoletano diverso da quello di Di Giacomo, Viviani e Eduardo. L’ho dovuto inventare. Quando la ragazza vede il padre vestito dabbene, non gli chiede: ‘hai miso ‘e mano dint’â sacca ‘e quaccuno?’, ma domanda: ‘hai spurtafugliato quaccuno?’. Sportafogliare diventa gergale. Il mio testo è pieno di questi ideologismi idiolettici. Ho spesso preso gli aggettivi e li ho trasformati in verbi. Ho elaborato un cockney napoletano fatto di parole inesistenti”.
Presenti temi di assistenzialismo ed emancipazione delle donne?
“In questa trasposizione sono dichiarati ma non sentiti fino in fondo, io gli ho dato un aspetto più marcato di rivendicazione sociale da parte della classe subalterna, attraverso la lingua che diventa più incisiva, mordace. Più caustica. Inasprendo la lingua si inasprisce anche il contenuto di ciò che si dice”.
Ha preso accordi col regista, Benedetto Sicca?
“No, andrò direttamente alla prova generale. Mi fido del suo lavoro. Sono un autore che non mette i bastoni fra le ruote… Lascio fare”.
E’ la prima volta che si occupa di una trasposizione di questo tipo?
“No, ne ho fatte diverse. Ho tradotto L’ispettore generale di Gogol' per Roberto Guicciardini che volle una rilettura fedele. La più interessante è stata Le furberie di Scapino di Molière per la regia di Sergio Fantoni…”.

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