Vedo
all’orizzonte un traguardo: mezzo secolo di palcoscenico. Cinquant’anni di
teatro che mi inducono a qualche riflessione; per esempio sul fatto che in
questi ultimi anni ho tentato di presentare classici visti con gli occhi di un contemporaneo
e testi contemporanei riletti con quelli dei classici, da Amleto a Aspettando Godot. Come
Shakespeare, così anche Don Chisciotte,
Cyrano o La venexiana sono stati tutti proposti per essere osservati con gli
occhi dell’oggi; mentre l’ultimo titolo che ho messo in scena, il capolavoro di
Beckett, evoca un classico del Shakespeare. Un’altra caratteristica del mio
teatro, che unisce tutti gli esempi appena elencati è quella di evitare il
dettaglio naturalistico nella scenografia. Ora, non dico che si tratta di un
errore; diciamo che è una scelta rispettabile, ma non è la mia. Io sono per le
scene disadorne, e più passano gli anni, più mi viene voglia di asciugare il superfluo.
Con
questo mio modo di fare ho cercato di dare delle emozioni al pubblico attraverso
il rapporto privilegiato tra spazio e parola. Se elimini quel che non serve e
ti concentri sulla parola e sullo spazio, elementi magici del teatro di tutti i
tempi, tu lavori per approfondire il significato e la fantasia dell’autore, del
regista e dell’attore. Nel famoso allestimento con Pino Micol, quando Cyrano muore, alza la mano verso il
cielo; e dal cielo cala una luna di legno. In quel momento hai una immagine poetica
della luna e della mano, un’aspirazione all’infinito, dove tutti vedono che
l’astro è di legno. E così deve essere. Questo è il mio modo di fare teatro.
Che
cosa intendo dire? Che il teatro, oggi più che mai, ha bisogno di essere fatto
con passione e professionalità. Poi, vuole innanzitutto uno spazio, una voce e un pubblico di uno o diecimila persone. La sua
straordinaria forza è questa. Non è un caso che resista da tremila anni a tutte
le grandi conquiste dell’umanità. Perché sempre più forte di esse resta una
persona che dice a un’altra: “C’era una volta”.
E
il “c’era una volta” di noi europei, di noi italiani, è tanto più importante
oggi nei grandi sommovimenti dell’umanità e in quelli del nostro Mediterraneo.
Lo dico pensando ovviamente a quella funzione che l’Italia - e Napoli - possono
avere in questo periodo di così radicali trasformazioni. E qui mi viene in
mente un titolo di Viviani, Scalo
marittimo, che si può erigere a simbolo drammaturgico di una città, costante
punto di approdo e di scambio per chi parte e per chi resta.
Napoli
capitale della scena può diffondere la
luce del teatro, la sua nobile e preziosa antichità, la sua lezione di civiltà
a un mondo che sta dimenticando il sapere. Il suo è un grido, una invocazione,
un appello per quell’Europa della cultura, della pace, della temperanza, del
vivere in armonia e intelligenza che ogni giorno è schiacciata, invece,
dall’Europa delle banche e del profitto.
Questa è la sfida che devono affrontare oggi le
nuove generazioni per assicurare un futuro al vecchio continente e un po’ a
tutta la civiltà occidentale. Ecco perché
sono convinto che Godot simboleggi la nostra vita oggi; è l’attesa di qualcosa
che non arriva mai. Come l’Europa della cultura e del Mediterraneo, appunto. Egli
viene dal secolo passato, ma non smette di rivolgersi a noi, uomini del nuovo
millennio, che si dimenano, confusi e incerti, senza sapere se sono clown
incisi nel solco del loro destino, aspettando chi non giungerà. Lo dice Pozzo
in una celebre battuta, casualmente evocando la fulminante poesia di Quasimodo: “Il giorno splende un istante, ed è subito
notte “.
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