Io e Annibale, la mia quotidiana "malombra"

di Enzo Moscato

Emotivamente, ho sempre “rifiutato” la morte di Ruccello.
L’ho rimossa, negata, sin dai primi istanti successivi alla incredibile, terribile notizia, datami per telefono quella sera del 12 settembre 1986. E questo rifiuto, questa rimozione, questa negazione del suo svanire fisicamente dal mondo e da questa città (che, in verità, non l’ha mai amato, come non ama nessuno che voglia cambiarla o aiutarla a cambiarsi) continua a persistere in me, ancora tuttora, con una caparbietà e una tenacia infantili che, sono certo, dureranno fino a che avrò respiro, fino al giorno in cui anch’io, suo amico e suo complice a teatro, sarò chiamato a raggiungerlo là dove credo si è rifatto un’altra bella carriera. Qualcosa di avventuroso, ma che nulla ha a che fare coi teatranti. Me lo immagino ora, un trafficante d’armi, come Rimbaud dopo la grande stagione all’inferno della sua poesia, o cacciatore di tenebre esotiche, come i migliori eroi di Conrad.
Questa persistenza della vita di Ruccello in me, oltre e nonostante la morte, questa specie di “Malombra” ma senza compiacimento letterario, è da ascrivere senz’altro all’onnipotenza magica, annullatrice del reale, di uno schizofrenico, certo; ma anche all’intima, differente natura di quelle enigmatiche creature che, per convenzione, chiamiamo artisti, e che non si arrendono mai (non dovrebbero arrendersi mai) neppure davanti alla più evidente bruttura del reale, al più spietato tradimento del nostro puerile, ma sublime, sogno di eternità. Eternità da guitto, è logico.
Tutta fintoni, cantinelle, mezze quinte, carta pesta.
Qualcuno troverà che sragiono, ma per me è naturalissimo che io viva così, ancora a tutt’oggi, quel geniale fanciullone; quel candido e, allo stesso tempo, perverso estensore di storie ispirate al ‘camp’, alla novellistica nera, ai ‘cult-movies’ americani, innestandoli sul grande tronco della letteratura verista o naturalista meridionale, imbrattandoli, di continuo, con la sua fecale, irriverente, martellante lingua tutta vesuviana. Trovo naturalissimo conservarlo nelle parole che batto a macchina, nei gesti che traccio sulla scena, nelle volute della voce tesa ad accendere inquiete interrogazioni negli orecchi di chi ci viene a guardare o a ‘sentire’ a teatro.

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