Latella, Eduardo e uno stabat mater per Pasolini

di Stefano Prestisimone

Quando un grande innovatore del teatro come Antonio Latella si confronta con la tradizione, non si può che essere curiosi. Ovvio che lui esplori la tradizione alla ricerca di forme nuove, affrancate dalla riproduzione e dai condizionamenti. Il regista stabiese sarà a Napoli con due lavori praticamente in contemporanea, Natale in casa Cupiello, il classico dei classici eduardiano al San Ferdinando dal 16 al 27 novembre, e Ma, il suo intenso, personalissimo omaggio all’adorato Pasolini al Nuovo dal 16 al 20 novembre e incentrato sulla figura della madre dello scrittore/regista nato a Bologna ma un po’ friulano e un po’ romano. "Tutta la letteratura e il teatro di Pasolini – spiega Latella - sono pervasi dalla presenza di quella madre che lo ha accompagnato nella fuga dalla banalità coatta del vivere quotidiano”.
Partiamo da Eduardo. Siamo di fronte a una delle commedie più viste e conosciute: che versione di Natale in casa Cupiello sarà?
“Parlerei di una visione, più che di una versione, di una lettura del testo attenta e rispettosa e contemporaneamente di una scrittura avvenuta attraverso il disegno registico. Il pubblico non vedrà certamente quello che ha sempre visto, ma vivrà tutta la stessa potenza di questo testo e di questi personaggi, in una dimensione forse più onirica, più simbolica”.
 Il presepe ha un ruolo simbolico molto forte anche nella sua rilettura?
“Il Presepe è centrale in questo allestimento, segue un andamento preciso nel corpo degli attori: dall'immobilità delle statuine avvolte nella carta di giornale, al raggiungimento della posizione nello spazio, alla distruzione, e alla ricostruzione finale. Il senso della creazione è fortissimo nel rapporto col presepe, e quel passaggio a un ‘presepe grande come il mondo’, come sarà nell'ultima visione del protagonista, parla di un confine tra realtà e sogno”.
 Il rapporto con Eduardo e il suo teatro?
“Eduardo mi ha permesso di fare una profonda riflessione sul senso dell'eredità, intesa come qualcosa che si riceve e si trasmette, con la possibilità non di replicarla, ma di viverla e nutrirla del proprio bagaglio, prima di lasciarla andare. E’ un autore gigantesco, se metti assieme i suoi lavori ne viene fuori un monumentale romanzo familiare del ‘900. Ha messo la lingua sulla pagina, ha fatto della scrittura una necessità. E i suoi lavori sono più forti di qualsiasi rilettura, di qualsiasi visione da regista perché alla fine vince sempre la sua parola. Al di là della messa in scena”.
Parliamo invece di Ma. Anche qui entra in scena il suo rapporto speciale con le opere di Pasolini che ha molto frequentato con la trilogia Pilade (2002), Porcile e Bestia da stile (2004). A 40 anni dalla morte cosa ci restituisce di lui questo spettacolo?
 “Un lavoro che mi ha sorpreso, per quanto il pubblico alla fine ne sia toccato ed emozionato, questo perché, evidentemente, ha diversi strati di lettura, e ognuno vi riconosce qualcosa di universale: del resto non può che essere tale il dolore di una madre, o di un padre, che seppellisce il proprio figlio. Pasolini non abbandona mai il mio percorso, e io non lascio mai la sua terra. Ho lavorato molto in passato sulle sue opere e continuo a studiarlo, anche non necessariamente in vista di uno spettacolo. Detto questo non penso che Ma possa restituire qualcosa di lui, è uno ‘stabat mater’, è una composizione intorno alla parola ‘addio’, attraverso la figura della Madre nell'opera del Poeta”.
Quando torna a Napoli lei si sente sempre un orfano?
“Ai genitori non basta l’affetto per aiutare i figli, devono metterli in condizione di crescere, vanno sorretti. Ma troppo spesso questa città lo dimentica. E dunque i figli di Napoli non fuggono ma sono costretti ad andare via per crescere”.

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