Taccuino d'autore

di Mario Martone


Conobbi Annibale pochi mesi prima che morisse. Ci presentò Alessandra Golia, un’amica comune.
Erano gli anni in cui il teatro napoletano cambiava. C’eravamo noi di Falso Movimento e Toni Servillo col Teatro Studio a rappresentare la post-avanguardia, fatta di suoni, immagini e poco testo, mentre Ruccello e Moscato erano invece i capifila della Nuova drammaturgia. Usavano le parole, erano scrittori, poeti. Entrambi, seppure molto diversi, hanno saputo portare alla luce i fantasmi, cogliendo l’anima profonda e immateriale di Napoli. Penso anche al rapporto con la Storia: Ferdinando, per esempio, uno dei capisaldi del teatro contemporaneo italiano, mette allo scoperto la ferita della memoria che pesa sulla città. Con Il giovane favoloso e Noi credevamo anche io ho indagato su quella ferita, anche per questo mi sento molto vicino ad Annibale.
Insieme abbiamo contribuito a far correre un vento nuovo, e non soltanto a Napoli.
Ci attraevamo, eravamo curiosi l’uno dell’altro. Avremmo senz’altro lavorato insieme se il destino non avesse deciso diversamente.
Non avevamo tracciato un progetto preciso, l'incontro era appena avvenuto, ma l’avremmo certamente fatto, come è accaduto più volte con Moscato. Già dai primi incontri quel ragazzo mi colpì per la cultura e la sua doppia anima.
Aveva studiato antropologia e si era formato lavorando al fianco di Roberto De Simone. Dunque, era ben consapevole delle radici napoletane. Nello stesso tempo mostrava una sensibilità mitteleuropea. Aveva conoscenze vaste e diversificate. Amava
Proust, che io non avevo ancora letto, e mi stimolò a leggerlo. Questo suo modo di essere napoletano a me piaceva molto. Era nato a due passi dal Vesuvio, ma il suo sguardo si proiettava lontano.
Annibale ha lasciato una produzione artistica notevole. A Arturo Cirillo va il merito di aver riscoperto il valore anche dei testi meno noti di Ruccello e di quelli apparentemente più acerbi.
L’anno scorso sono riuscito a portare in scena a Torino Notturno di donna con ospiti con Giuliana De Sio, Gino Curcione, Rosaria De Cicco e la regia di Enrico Maria Lamanna. Nonostante le preoccupazioni che sempre si manifestano al nord per testi le cui parti in napoletano possono risultare incomprensibili, è stato un grande successo. A dimostrazione del fatto che il teatro di Ruccello è vivo e attuale. Anche per questo ho provato grande emozione nel ricevere il Premio a lui intitolato al Festival del Teatro di Positano diretto da Gerardo D’Andrea. Annibale ha consegnato una drammaturgia entrata ormai nella storia del teatro italiano.
Il mio modo di lavorare prevede dialoghi sul copione, scambi, modifiche: è così, ad esempio, che lavoro con Moscato, è così che è nata la sceneggiatura di Morte di un matematico napoletano con Fabrizia Ramondino. Non può che mancarmi, dunque, questa possibilità con Annibale. Ma un giorno mi piacerebbe portare sul palcoscenico un suo testo. Emotivamente penso a Le cinque rose di Jennifer. Perché lo vidi con lui in scena.

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