Con Monti Ovadia voglia di cabaret ma in stile Yddish


Dopo il successo di pubblico ottenuto da Cabaret Yiddish, Moni Ovadia ripropone la sua opera comica il 15 gennaio al Teatro Verdi di Salerno e il 16 gennaio al Teatro Comunale Paravidino di Caserta.
Moni Ovadia, uno spettacolo farsesco, ma che nasconde un messaggio più grande.
“Questo spettacolo, attraverso la forma semplice del cabaret porta lo spettatore nell’epopea straordinaria di “una gente” che ha popolato l’Europa in una condizione di esilio, mostrando al mondo che un popolo può essere tale anche senza uno Stato, anche senza confini.
Il popolo dell’esilio vive sospeso tra cielo e terra, in una dimensione vertiginosa di spiritualità che fa dell’umorismo uno strumento per affrontare la vita e per sconfiggere le tenebre della violenza”.
L’umorismo è quindi una via per esorcizzare il passato e il male?
“L’umorismo che caratterizza il cammino di questa cultura dell’esilio è una forma di visione del mondo che affronta il dramma, illuminando, col paradosso, una terza via.
Se noi siamo l’umanità della contrapposizione violenta “o tu o io”, out out, l’umorismo mostra che esiste anche la cultura del “et et”, cioè del te ed io, palesando così la stupidità dell’esclusione, la stupidità di chi pretende di essere di più di qualcun altro e rivelando che non c’è di meglio, c’è solo l’altro”.
L’Yiddish è una lingua aperta, così come aperta è la dimensione dell’esilio.
“La condizione dell’esilio illumina l’essere umano nella sua nudità, nella sua fragilità e quindi anche nella sua grandezza, perché l’uomo sottratto e liberato da presunte “parentele”, può elevarsi e guardare al mondo e all’altro uomo con una libertà e una benevolenza che colui che si ritiene appartenente ad un’identità rigida, e quindi che la frappone ad un’altra identità, non può avere. La nazionalità è ventura, non può condizionare la vita dell’uomo.
Condividiamo uno statuto universale estremamente più grande ed è quello di essere umano.
Siamo stranieri fra stranieri, ci riconosciamo in quanto tali ed in quanto tali accettiamo la nostra fragilità esistenziale, facendone un pilastro per l’edificazione di un mondo di accoglienza e non di separazione e discriminazione.
La condizione del forestiero è una dimensione grandiosa che permette di guardare l’uomo attraverso non il suo passaporto, ma la sua anima”.

fed. de ces.

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