I Virtuosi di San Martino contro la dittatura dei Rumors

Di Viola De Vivo

Un appuntamento perfettamente in bilico tra concerto e commedia: dal 26 al 30 dicembre il Teatro Nuovo di Napoli propone Rumors (Settanta juke-box), l’ultimo esilarante lavoro dei Virtuosi di San Martino, eclettico ensemble costituito da Roberto Del Gaudio (voce), Federico Odling (violoncello), Vittorio Ricciardi (flauto), Francesco Solombrino (violino e viola), Carmine Terracciano (chitarra).
Roberto Del Gaudio, autore anche del testo, iniziamo dal titolo: come mai Rumors?
Rumor vuol dire pettegolezzo, ma qui viene usato nell’inglese maccheronico di un personaggio nuovo, il manager dei Virtuosi. Per lui i rumors sono i rumori che l’industria discografica da cinquant’anni a questa parte impone all’orecchio di noi tutti, procurando uno slittamento di senso verso la musica come prodotto, o come reiterazione di rumori della nostra epoca: penso a certo rock e a quanto il rock sia riproduttivo dei rumori della fabbrica”.
Quindi l’idea è che oggi la musica è diventata rumore…
Il tema dello spettacolo è venuto fuori dall’osservazione che ormai ovunque si vada – in un negozio, dal parrucchiere – ci si deve sentire nelle orecchie la musica leggera, come qualcosa da cui non si può più sfuggire. Allora abbiamo scelto i pezzi più rappresentativi degli anni Settanta, anni in cui questa forma ha trionfato dal punto di vista industriale con milioni di dischi venduti dai Beatles, dai Pink Floyd e altri”.
Che lavoro avete fatto con questi brani?
Ci siamo divertiti a giocare con brani che vengono ormai considerati quasi intoccabili: Mamma mia degli Abba diventa la storia di una femminista che si scopre sadomaso, Blowin’ in the wind di Bob Dylan prende la musica di Quarantaquattro gatti. Ancora avremo Imagine di John Lennon in salsa Squallor: ogni volta che la eseguiamo c’è sempre la paura di contestazioni perché è un po’ una provocazione, ma il senso è che non esiste nulla di intoccabile”.
Rumors si conclude con Je so’ pazzo di Pino Daniele, con un’incursione di Domenico Soriano…
Si tratta di due pazzi a confronto: Je so’ pazzo racconta di questo Masaniello nuovo, e Filumena Marturano inizia proprio con la battuta «Pazzo, pazzo, pazzo!». Mi interessava confrontare questi due linguaggi, queste due pazzie lontane nel tempo ma incredibilmente vicine nei riferimenti culturali”.
Cosa possiamo contrapporre ai rumors? Come far sì che la musica non sia più un rumore di sottofondo?
La musica non dev’essere più usata per stordire le masse. La musica è una forma d’arte di fronte alla quale dovremmo avere un atteggiamento meno consumistico. Non è detto che le nostre orecchie debbano essere sempre occupate da ritmi frenetici imposti dalle case discografiche. Questo è un imperialismo del senso che dovremmo cominciare a rifiutare, perché si tratta di una vera e propria dittatura del rumore”.


Un’irriverente lettura musicale degli anni Settanta (versione per il web)

Un appuntamento perfettamente in bilico tra concerto e commedia: dal 26 al 30 dicembre il Teatro Nuovo di Napoli propone “Rumors (Settanta juke-box)”, l’ultimo esilarante spettacolo de I Virtuosi di San Martino. L’ensemble, costituito da Roberto Del Gaudio (voce e rielaborazione testi), Federico Odling (violoncello e rielaborazioni musicali), Vittorio Ricciardi (flauto), Francesco Solombrino (violino e viola), Carmine Terracciano (chitarra), si caratterizza per la capacità di piegare la forma-canzone alle esigenze di una comicità irriverente, attraverso parodistici richiami ai generi musicali più eterogenei. Abbiamo fatto due chiacchiere con Roberto Del Gaudio, autore dei testi dello spettacolo.
Iniziamo dal titolo: come mai Rumors?
Come sappiamo rumor vuol dire pettegolezzo, ma qui viene usato nell’inglese maccheronico di un personaggio nuovo, il manager dei Virtuosi. Per lui i rumors sono proprio i rumori: quelli che l’industria discografica da cinquant’anni a questa parte impone all’orecchio di noi tutti, procurando uno slittamento di senso verso la musica come prodotto, o come reiterazione di rumori della nostra epoca: penso a certo rock e a quanto il rock sia riproduttivo dei rumori della fabbrica.
Quindi l’idea è che oggi la musica è diventata rumore…
Il tema dello spettacolo è venuto fuori dall’osservazione che ormai ovunque si vada – in un negozio, dal parrucchiere – ci si deve sentire nelle orecchie la musica leggera, come qualcosa da cui non si può più sfuggire. Allora abbiamo scelto i pezzi più rappresentativi in particolare degli anni Settanta, anni in cui questa forma ha trionfato dal punto di vista industriale con i milioni e milioni di dischi venduti dai Beatles, dai Pink Floyd e da altri gruppi.
Che lavoro avete fatto con questi brani? Ci aspettiamo arditi accostamenti in perfetto stile Virtuosi.
Ci siamo divertiti a giocare con dei brani che vengono ormai considerati quasi intoccabili. Ad esempio Mamma mia degli Abba diventa la storia di una femminista che si scopre sadomaso, oppure Blowin’ in the wind di Bob Dylan prende la musica di Quarantaquattro gatti. Ancora avremo Imagine di John Lennon in salsa Squallor: ogni volta che la eseguiamo c’è sempre la paura di contestazioni perché è un po’ una provocazione, ma il senso è che non esiste nulla di intoccabile.
Gli anni Sessanta e Settanta di solito sono guardati nostalgicamente come anni di impegno e spinta rivoluzionaria. Qual è la prospettiva che emerge dallo spettacolo?
La prospettiva non è per niente nostalgica, ma critica e – oserei dire, con tutto il rispetto e con le dovute distanze – un po’ pasoliniana. Negli anni Sessanta e Settanta inizia quel processo che ha portato al trionfo della merce sull’uomo: anche quella libertà, che il ‘68 sbandierava in maniera forse un po’ vacanziera, ormai ha finito col diventare una merce. Lo stesso femminismo, se da un lato ha prodotto delle cose preziosissime, dall’altro si è rivelato un boomerang: oggi la donna è più sfruttata dell’uomo nei posti di lavoro. Insomma tutta la musica e la cultura che all’epoca sembravano rivoluzionarie altro non si sono rivelate se non un buon prodotto. Riteniamo che la crisi dell’occidente si sia consolidata proprio in quegli anni, e infatti da quegli anni non ci siamo più mossi.
Una visione abbastanza pessimista per uno spettacolo comico.
Noi proviamo a essere ottimisti usando la risata in senso critico, cercando di svincolarla dalle cretinate televisive che ci propinano: la risata ha una sua nobiltà critica. Noi produciamo uno spettacolo e lo mettiamo in scena per dire che forse queste categorie che ci stanno ingabbiando il pensiero è ora che si superino, ed è ora che ci interroghiamo su che cosa vogliamo fare delle nostre città, del nostro lavoro, delle nostre vite, dei nostri rapporti interpersonali: se vogliamo ancora continuare a essere schiavi di un sistema economico che sta schiacciando l’ambiente e le giovani generazioni.
Rumors si conclude con Je so’ pazzo di Pino Daniele, in cui fa irruzione Domenico Soriano, protagonista di Filumena Marturano. Un omaggio a due grandi della nostra Napoli?
Con questo finale abbiamo inteso omaggiare Pino Daniele, la cui scomparsa è stata una perdita gravissima per la nostra città. Si tratta di due pazzi a confronto: Je so’ pazzo racconta di questo Masaniello nuovo, e Filumena Marturano inizia proprio con la battuta «Pazzo, pazzo, pazzo!». Mi interessava confrontare questi due linguaggi, queste due pazzie lontane nel tempo ma incredibilmente vicine nei riferimenti culturali. La lingua napoletana, anche nelle evoluzioni più recenti, ha una sua profondità tradizionale. Pino Daniele è ricollegabile tranquillamente ai grandi del teatro e della musica napoletana di sempre, tra i quali Eduardo.
Cosa possiamo contrapporre ai rumors? Come far sì che la musica non sia più solo un prodotto o un rumore di sottofondo?
La musica non dev’essere più usata, come attualmente è usata, per stordire le masse. La musica è una forma d’arte di fronte alla quale dovremmo avere un atteggiamento meno consumistico. Non è detto che le nostre orecchie debbano essere sempre occupate da ritmi frenetici imposti dalle case discografiche. Questo è un imperialismo del senso che dovremmo cominciare a rifiutare, perché si tratta di una vera e propria dittatura del rumore.


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