Di Palma in viaggio tra le ombre per svelare l'anima inquieta di Gemito

Il genio dell’abbandono dal libro della Marasco

di Federica De Cesare

Dal 22 febbraio al 5 marzo, al San Ferdinando di Napoli, Claudio Di Palma porta sul palcoscenico Il genio dell'abbandono, tratto dall'omonimo libro di Wanda Marasco, ricostruzione biografica della tormentata vita dell'artista napoletano Vincenzo Gemito. Tra le sue opere più importanti, la statua di Carlo V, la quinta delle otto collocate sulla facciata principale del Palazzo Reale di Napoli. "Il libro - dichiara il regista che è anche in scena (Gemito) insieme ad Angela Pagano nei panni della madre adottiva di Vincenzo, Giuseppina Baratta - ha una matrice estremamente letteraria dove si azzarda una sorta di stesura biografica sincronica dei fatti e che quindi non ha i canoni e la dinamica della narrazione cronologica. Prima un arrangiamento del testo e poi con ulteriori adattamenti, si è tentato di mantenere una ricongiunzione con il presente, rispettando il più possibile l'andamento sincronico. il linguaggio del libro, un napoletano tra l'arcaico e il neologistico, efficace per la sua forza espressiva, è stato una delle fonti di maggior ispirazione per la realizzazione dello spettacolo". Molto si gioca intorno al tema dell'abbandono che prende predominante spazio all'interno della rappresentazione. Abbandono inteso come tutto quel mondo ombra che aleggia attorno alla vita e alle opere di Vincenzo Gemito.
"Pare - continua Di Palma - che il cognome Genito, di buon auspicio, derivazione di generato e procreato, conferitogli da una monaca dell'Annunziata, si sia trasformato, per un errore di trascrizione in Gemito, appunto, lamentazione, disperazione. Sono proprio questi aspetti, queste ombre, che hanno influenzato e caratterizzato la sua vita, ad avermi particolarmente attratto, molto più dell'esplosione espressiva.
E' interessante notare quanto l'ambiente circostante abbia condizionato la sua vita e quanto, condizionando la sua vita, gli abbia permesso di generare l'arte".
E allora ci si chiede come viene indagata questa frattura interiore sul terreno teatrale. "La sua personalità fuoriesce, in scena, anche attraverso il rapporto con gli altri personaggi, rapporti effettivi e, al contempo , immaginati. Tutti i personaggi hanno una loro personalità autonoma, ma tutto è vissuto e visto con gli occhi di Gemito, che proietta su di essi le proprie paure e le proprie ombre. L'ombra è una tra le forme espressive più ricorrenti nelle sue opere ed è questa disperazione interiore, la dimensione che ci sembra più importante indagare". La vita di Gemito è il continuo riflesso tra sentimento di abbandono e ricerca di un'identità personale in una città, Napoli, quasi sempre vista e raccontata come un luogo che lo insegue, lo bracca con tutte le sue immagini disperate e allucinate e che, al contempo, stimola la sua forza creativa. "Potrei sintetizzare - conclude Di Palma - il termine abbandono proprio con quello di identità. Mastu Ciccio, padre adottivo e secondo marito della Baratta, diventa uno dei suoi modelli preferiti perché in lui coglie una certa somiglianza e, nel somigliargli molto, lo disegna tanto, per tentare di capirne l'animo. Capire l'animo di Mastu Ciccio  significa, per Gemito, cogliere il proprio. L'artista ha bisogno di conoscere continuamente nel corpo degli altri, il suo corpo, per cercare probabilmente di vincere quel senso profondo dell'abbandono e di ritrovare magari un'identità".

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