Un Gesù cieco e un povero cristo nell'oscura periferia di Celestini

LAIKA Il titolo evoca la cagnetta russa lanciata nello spazio e l’assenza di Dio

Di Roberto D'Avascio


Dopo essere stato presentato all'interno dell'ultima edizione del Napoli Teatro Festival Italia dello scorso luglio, l'ultimo spettacolo di Ascanio Celestini, Laika, ritorna a Napoli tra il 29 marzo e il 2 aprile nella sala del Teatro Nuovo di Napoli, dopo essere stato il 26 al Verdi di Salerno e il 28 al Gesualdo di Avellino. Lo spettacolo si snoda attraverso la figura interpretata dallo stesso Celestini e la sua narrazione, avvalendosi anche delle note della fisarmonica di Giorgio Casadei e della voce fuori campo di Alba Rohrwacher. Si tratta di un Gesù Cristo molto improbabile, che vive in una periferia metropolitana, in un piccolo e squallido appartamento che affaccia sul parcheggio di un supermercato. Sembra interessato alla vita che gli gira intorno, a decifrarla, a darle un senso. Ma non ci vede, è cieco. Può parlare, ma non vedere. Per questo con lui vive Simone, quai un suo discepolo, sempre pronto ad ascoltarlo e a dargli indicazioni su quello che succede nel mondo, fuori dalla finestra.
In particolare, dalla casa la loro attenzione è puntata su un barbone, che fa una vita di assoluta miseria, raccattando quel poco che gli serve per sopravvivere chiedendo la carità di giorno, mentre la notte la passa a dormire al freddo tra vecchi cartoni sporchi. Questo Cristo di periferia, curioso e vivace, parla spesso del barbone, è interessato alla sua vita: non sembra pronto o disposto a redimere un'umanità estremamente sofferente, ma è naturalmente spinto a conoscere qualcosa di quell'africano clandestino scappato dal proprio paese alla ricerca di una vita migliore. Celestini intitola Laika questo suo nuovo spettacolo, che ha già toccato varie città italiane, facendo riferimento soprattutto alla cagnetta lanciata nello spazio nel lontano 1957 da una capsula spaziale sovietica e mai più rientrata sulla Terra, ma anche all'aggettivo 'laica' che rimanda ad una dimensione in cui Dio sembra assente. Celestini insiste sulla costruzione di un personaggio che rigetta una duplice natura, di essere umano e divino, per sprofondare nelle viscere della materia del mondo, della sua più terrestre umanità, fatta di sangue e parole.
Dolore, paura, dubbi, ma anche necessità di comprendere la presenza dell'uomo rispetto al mondo animato, una scena che inevitabilmente tira in ballo attraverso una potente narrazione, le grandi questioni della vita che le storiche religioni monoteiste hanno affrontato e risolto per salvare l'umanità, darle un senso, comprenderla. Con un Cristianesimo in piena crisi, schiacciato tra un Ebraismo che ha ridefinito la sua identità in chiave nazionalista e un Islam che si è fatta religione di potere. Nonostante tutto questo il povero e umanissimo Gesù Cristo improbabile di Celestini prova a fare qualcosa, con i pochi mezzi che ha a disposizione. Si impegna per aiutare il barbone di colore in difficoltà. Aiuta e si fa aiutare. E l'aiuto lo riceve da Simone, novello apostolo Pietro, che parla attraverso la voce sottile e delicata di una grande attrice quale Alba Rohrwacher.  L'umanesimo teatrale e laico di Celestini alla fine riesce a fare poco e molto allo stesso tempo: creare delle relazioni, con la sua presenza e la sua parola. Tra gli uomini. Tra i tanti poveri cristi che affollano le nostre periferie.

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