La solitudine e l’individualismo esasperato in due spettacoli di Mattia Torre

di Roberto D'Avascio

Mattia Torre è un artista eclettico, che negli ultimi vent’anni ha spaziato con libertà dal teatro al cinema, passando per la letteratura e la tv – ricordiamo la prima stagione della serie Boris e la recente fiction Rai La linea verticale – ma ritornando spesso alla scena teatrale, anzi contaminando spesso altri linguaggi con una originale dimensione scenica. Arriva a Napoli con due spettacoli al Teatro Nuovo: Qui e ora in scena dal 21 al 25 febbraio (al Verdi di Salerno il 29 marzo) con Paolo Calabresi e Valerio Aprea, e 456 dall’11 al 15 aprile, con Massimo De Lorenzo, Cristina Pellegrino, Carlo De Ruggieri, Michele Nani. Prodotti rispettivamente da Nuovo Teatro di Marco Balsamo e da Marche Teatro.
Torre, la sua attività artistica è stata trasversale tra palcoscenico, cinema e televisione. Partiamo dal rapporto con la scena.
“Il teatro è stato il luogo fisico in cui ho iniziato a lavorare negli anni ’90, insieme a Giacomo Ciarrapico, con la produzione di piccoli spettacoli nei teatri off di Roma. Lavoravo già allora con lo stesso gruppo – casting, attori, musiche – che sarebbe poi stato quello di Boris. Era una piccola factory: un gruppo di lavoro che matura nel tempo attraverso un lavoro comune, mantenendo sempre lo stesso segno”.
Che tipo di teatro avete sviluppato in quegli anni?
“Uno che definirei “abusivo”: intendo un incrocio tra un teatro pop e uno più alto. Mi riferisco a quello popolare che ha qualcosa da dire, non puro intrattenimento. Che si rivolge a tutti, a un largo strato di pubblico, ma non è affatto povero di contenuti. I miei spettacoli vogliono comunicare qualcosa di importante, attraverso lo strumento della commedia”.
La sua produzione è molto caratterizzata dall’uso della parola...
“La mia formazione è quella di scrittore. Divento regista quasi per necessità: per dare una prosecuzione coerente al lavoro di scrittura. La regia mi piace e mi entusiasma, ma il mio vero punto di forza è nella produzione verbale. Anche Boris è stata un’opera fondata sulla parola. In un’epoca di crisi, anche di mezzi e di risorse, ho voluto dimostrare che si possono raccontare grandi storie con pochi mezzi, mettendo al centro l’uso del parlato. Un modo essenziale di raccontare, senza orpelli e scenografie”.
Come costruisce la scena dei suoi spettacoli?
“Con pochissimi elementi, ma molto significativi. Per esempio in 456 c’è un inginocchiatoio, preziosissimo per la famiglia protagonista, un sugo perpetuo di pomodoro, considerato sacro, e pochi scarni oggetti di legno bruciato. Fondamentale per me è l’uso della luce, che deve fondere la scena e creare atmosfera. In Qui e ora, che racconta un’ora e mezza di tempo reale, la luce è perfettamente statica, a vantaggio di storia e attori, mentre nel finale ha un cambiamento significativo”.
In Qui e ora si descrivono una società violenta e personaggi alienati, mentre in 456 la devastazione della famiglia. È questa l’immagine che ha dell’Italia di oggi?
Qui e ora vuole raccontare più il nostro paese che il nostro tempo. Un paese perduto, più che violento, a cui manca un terreno di condivisone e un senso della comunità. È terribile e triste pensare che noi italiani siamo potenzialmente sempre tutti gli uni contro gli altri. L’incidente stradale della vicenda mostra come nasce il nemico. In 456 questo senso di solitudine e di individualità esasperata è ancora più forte. La famiglia che dovrebbe essere il luogo più accogliente della società diventa invece il luogo dell’odio”.

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