Taccuino d'Autore di Enzo Moscato

di Enzo Moscato


De Filippo e la traDizione per sentirmi Davvero suo Figlio inseguo la mia vocazione al traDimento Sto cercando di ricordare dove, come e quando è nata un’affermazione che di frequente mi si attribuisce. Quella, cioè, di non essere o di non sentirmi figlio – drammaturgicamente parlando – del grande Eduardo De Filippo. Figlio o nipote suo, mi sento, invece, e non potrebbe essere altrimenti, per storia e tradizione, inerenti alla comune città d’origine, questo è certo. Ma è altrettanto certo che mi senta pure figlio d’altri. Di Viviani, per esempio. O di Di Giacomo. O di Matilde Serao. O di Ferdinando Russo. O di Anna Maria Ortese, tanto per citare solo qualche illustre nome, legato al patrio suolo delle lettere. E questo fatto, questa coscienza perturbata in me, di dovere i mie paterni o materni natali non a un solo avo, ma a mille e più che a mille, sia in Napoli che nel mondo, è stato senza dubbio foriero di molte e importanti implicazioni, per quanto riguarda la sostanza e la forma delle mie scritture per il teatro. Innanzitutto credo che per arrivare a sentirsi autenticamente figlio di qualcuno, sia in senso letterale che metaforico, bisogna battere, nolenti o volenti, e paradossalmente, le piste disagevoli e un po’ amare del tradimento. Vale a dire: bisogna provare a attestarsi altrove dalla corrente, diciamo così, naturale, del proprio sangue, dei propri cromosomi, e questo altrove, poi, guardare, considerare, capire, studiare, ciò che ci lega sul serio, nel profondo, al nostro imprinting originario, gettando a mare, quando è il caso, come inutile e dannosa, tutta la trita zavorra del luogo comune, del pregiudizio, del folclore, della passività imitativa dei modelli tramandati. Bisogna farsi, insomma, prima di tutto, estranei, stranieri, forestieri, rispetto a se stessi, rispetto al proprio genòma, rispetto al proprio habitat di nascita e cultura, e poi tornare in patria. Bisogna, idealmente e concretamente, camminare, camminare, allontanarsi, estradarsi, esularsi, per terre e lingue ignote, per capire veramente di chi si è o di chi si è stati – magari senza neppure sospettarlo – autenticamente figlio. Bisogna ancora, da legittimi, convertirsi in orfani, in bastardi, in trovatelli. Da progenie, supposta certa e nobile, trasformarsi in anonimi figli della serva, oppure in meticciata semenza di profughi e di apolidi, per avvertire/sentire dentro di sé, in modo sicuro, senza alcun tentennamento o dubbio, la propria geografica-antropologica origine, il proprio condividere lembi e psicofisici profili con quel qualcuno che è detto genitore, ovvero padre/madre per biologica assonanza. Senza contare poi che in questo andare – viaggiare – peregrinare – sconfinare, ci si infetta, ci si ammala, ci si carica di piaghe, di ferite, di brutture, storpiature, e così – quando finalmente si ritorna a “casa”, bendati e fasciati, illebrositi, trasfigurati – nessuno più ti riconosce, o vuole starti più a sentire, e che tu proclami a pieni polmoni a quel luogo e a quella gente la tua appartenenza, ma con altra voce e con altra lingua (lingua e voce da Odissea, diversa dalle loro!), è la tua disperazione, la tua croce, il tuo gridare a vuoto nel deserto più totale. Ma è anche però il tuo specifico, la storia tua, il tuo individuale contributo ad arricchire quel luogo e quella gente, che, ostile, non ti riconosce e ti rifiuta, perché ha rimosso e cancellato da sé il proprio Altro, il proprio Doppio, la propria Ombra, e penosamente campa a ”una dimensione”, per dirla alla Marcuse. Ecco, quando penso al grande De Filippo, quando penso al mio rapporto genetico-teatrale, con lui, penso a questo, a tutta questa stratificata complessità.
A questa necessaria peregrinazione fisico-mentale, a questo ineluttabile tradire/stornarmi/infettarmi/compararmi, prima con l’Altro e poi, soltanto in seguito, con lui. Non penso a un lineare riconoscermi-congiungermi alla sua scenica carne inimitabile, naturalmente e scontatamente, perché siamo fatalmente divorati entrambi dalla stessa lingua/prassi di Napoli-Matrèa. Il rapporto filiativo passa per ben altro ed è talmente al fondo che neppure il sottoscritto riesce a intravederlo. Perché è e rimarrà sempre un insondabile mistero. Stabilire parentele con Eduardo, insomma, o sentirsi consanguinei col suo straordinario mondo di concetti e di visioni, non è un dogma, tantomeno un libero arbitrato. Semmai un diritto – che del resto non andrebbe reclamato mai – che si consegue per faticoso studio e attenzione immensa. Non certo per dirette vie si deve andare da lui, ad eundum eum… ad Eduardum! Meno che mai per campanilistiche – dialettofone – empatie nascenti da cassette e dvd, in consumistica ipervendita all’edicola!


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