Viviani, oltre il realismo in una Napoli come incubo

Il ricordo di un autore europeo a 130 anni dalla nascita 

di Enrico Fiore


Dunque, il 10 gennaio prossimo si compiranno centotrenta anni dalla nascita di Raffaele Viviani. E se vogliamo ricordare in maniera non banale (o fuorviante) questo nostro grandissimo autore, senz’alcun dubbio di statura europea, occorre innanzitutto sgombrare il terreno dall’equivoco che continua ad ostacolare la corretta lettura e valutazione della sua opera: l’equivoco di un Viviani “semplicemente” realista. Basta, in proposito, riferirsi alla questione della lingua. Quella di Viviani non si limita ad essere una lingua connotativa (ossia, rispetto agli ambienti e ai personaggi, puramente descrittiva), ma è, costantemente e strenuamente, una lingua costitutiva. E forse è opportuno, nel merito, riandare alla famosa formula di Sartre circa il linguaggio come “corpo verbale”: poiché, se è vero che io sono linguaggio, che ciascuno di noi è il linguaggio che parla, ecco che anche i personaggi di Viviani (o i vicoli e le piazze in cui si muovono) sono esattamente la lingua che parlano (o che li evoca). Si tratta di una lingua meticcia, assolutamente degna dell’aggettivo in quanto tramata anche (e spesso soprattutto) di voci in sé concluse (poniamo, i richiami gergali dei venditori ambulanti) e addirittura dei semplici rumori quotidiani. Ma Viviani è un autore straordinario perché, servendosi per l’appunto di quella lingua, come tutti i grandi scrittori mette in campo – contemporaneamente – un estremo realismo (ovvero un’eccezionale capacità di catalogazione, descrizione e illustrazione dei singoli elementi di un ambiente, di un personaggio, di una situazione) e il sistematico slittamento di quel realismo in una dimensione altra, vale a dire astratta e simbolica. Faccio al riguardo un solo esempio, quello del canto ’E piscature compreso nell’omonima tragedia e la cui prima quartina recita: «’E vuzze d’ ’o ssicco, cu ll’uommene attuorno, / cu “Oh tira!” e cu “Oh venga!” se scenneno a mmare. / Se forma ’a paranza, va fore e scumpare / e a buordo, surtanto, se danno ’o buongiorno». Come si vede, Viviani comincia con una descrizione incomparabilmente precisa e dettagliata dell’operazione di “scendere” (ossia di trascinare) in mare le barche da pesca, nella circostanza i gozzi. Le “voci” lanciate dai pescatori («Oh tira!», «Oh venga!») servono, in pratica, a “sostenere” la fatica, e sono esattamente quelle che risuonavano un tempo. Ma subito dopo comincia il predetto slittamento di senso in una dimensione altra: «Se forma ‘a paranza, va fore e scumpare». Perché “scumpare”? Viviani avrebbe potuto limitarsi a dire “va fore”. Dice, invece, «va fore e scumpare». E aggiunge: «e a buordo, surtanto, se danno ‘o buongiorno». Sì, è tutto molto realistico. Eppure la scelta delle parole, i ritmi, i suoni ci trasportano, ripeto, in una dimensione che di realistico non ha più nulla: qui, insomma, si sta svolgendo un’autentica cerimonia rituale, è come se si fosse costituito un gruppo di sacerdoti che, una volta avviato il meccanismo esteriore del loro rito (il trascinamento delle barche in mare), cominciano – per così dire – a parlare in latino (dandosi il buongiorno, e cioè riconoscendosi fra loro quali membri della stessa “setta”, soltanto “a bordo” e dopo essere “scomparsi”). Lo capì, tutto questo, Peppino Patroni Griffi, rileggendo Viviani in chiave mitteleuropea (pensiamo all’indimenticabile Napoli: notte e giorno) e sul filo dell’espressionismo. Ma lo capì, molti anni dopo, anche Christoph Marthaler, uno dei massimi registi d’oggi, che nel 2006 portò al Piccolo Strehler, nell’ambito del Festival dei Teatri d’Europa, un allestimento de I dieci Comandamenti prodotto dalla Volksbühne dell’ex Berlino Est: un allestimento che, a battere in breccia qualsiasi tentazione di realismo, fondeva in un solo ambiente una chiesa, una piazza e un music-hall. D’altronde, in quale teatro tedesco poteva essere di casa Viviani, se non, appunto, in quella Volksbühne (alla lettera “Palcoscenico del Popolo”) che s’affaccia sulla piazza intitolata a Rosa Luxemburg? Con ciò voglio dire, a conclusione di questa breve nota, anche di un’altra decisiva e dimenticata caratteristica di Viviani. Sentì Napoli come un incubo: un incubo che scaturiva dalla necessità - avvertita con assoluto rigore morale – di ritrarre la realtà “nascosta” di questa città al di là di qualsiasi filtro consolatorio o demagogico.


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