Branciaroli è Jean Valjean nei "Miserabili". "Rappresentare Hugo? Per un attore è facile"

Di Stefano Prestisimone


Se l’uomo viene spogliato di tutto, e anche della sua dignità, cosa gli resta? Victor Hugo affrontò il tema nel suo libro più imponente e mitico: I miserabili, vicende di ex forzati, prostitute, monelli di strada, studenti in povertà. Scritto nel 1862 e diviso in 48 volumetti per un totale di circa 1500 pagine, è considerato da sempre un caposaldo della letteratura di tutti i tempi. Un’opera la cui gestazione fu lunga e complessa: trascorsero più di quindici anni fra le prime parole scritte e la stesura definitiva di Les Misèrables. Ora quel ciclopico lavoro torna sul palcoscenico per una sfida imponente firmata da Franco Però, con l’adattamento di Luca Doninelli e un big della scena come Franco Branciaroli nel ruolo del protagonista, Jean Valjean. Ad ospitarlo è il Mercadante, dal 25 aprile al 6 maggio, con la produzione del Centro Teatrale Bresciano, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro degli Incamminati.
Branciaroli, cosa vuol dire portare oggi in scena un kolossal della letteratura come I miserabili? “Per l’attore in fondo non è così complesso come per il regista o per chi ha scritto l’adattamento teatrale. Il lavoraccio è riservato più a loro, vista l’immensità dell’opera. Io interpreto Jean Valjean che tra l’altro parla pochissimo nel romanzo. È più Hugo che ne parla. Il personaggio è silenzioso, con poche battute in diretta. E in fondo è semplice entrare nei suoi panni, di sicuro molto più semplice di un Macbeth. Parliamo del romanzo romantico francese per eccellenza, i cui personaggi sono scolpiti con psicologia precisa e se hai il physique du rôle, che è necessario, il lavoro viene da sé”.
I miserabili è paragonabile all’Odissea, alla Divina Commedia o Guerra e Pace, come qualcuno ritiene?
“Per me, per molti aspetti, è più vicino ai romanzi d’appendice, ovvero ‘popolari’. Non è paragonabile stilisticamente a Guerra e pace o Anna Karenina, è più vicino a Dostoevskij nella forma anche se non nella sostanza. Sono romanzoni a tutto tondo, che dovevano soddisfare un sacco di licenze: ricreative, informative, politiche. Tutto ciò che oggi abbiamo, ovvero tv, cinema, giornali, radio, era dentro a queste opere”.
Negli anni ’60 ci fu una celebre versione tv italiana in forma di sceneggiato.
“Era il tipo di romanzo perfetto per quel tipo di sceneggiato televisivo. Protagonista fu Gastone Moschin. Ma in tutte le due edizioni televisive non ha mai soddisfatto a pieno, rispetto al romanzo. Molto più riuscito il celebre musical inglese perché in quel caso concorrevano una sequenza infinita e sfavillante di mezzi tecnici e musicali. Anche le versioni cinematografiche non mi sono troppo piaciute, compresa quella con Jean Gabin”.
Lei è anche regista, oltre che attore. Passare da una parte all’altra della barricata che effetto le fa?
“Preferisco sempre fare l’attore, le mie regie sono state frutto di un ragionamento semplice. Si trattava di testi che non necessitavano di direzioni particolari essendo molto basate sull’attore e quindi anche per risparmiare ho pensato di farle da solo. Servo di scena è venuto molto bene, Il teatrante di Thomas Bernhard anche. Ma mi sento attore. Il regista è un mestiere angosciante e poi ha poche soddisfazioni rispetto a chi va in scena”.
Lei ha un atteggiamento piuttosto disincantato sul teatro e sul lavoro da artista in generale.
“Il mio disincanto va di pari passo con il depotenziamento delle arti con il passare del tempo. Non si può dire certo che oggi la qualità artistica è molto rispettata in tutti i campi. Basta guardare le classifiche di vendita dei libri o quelle relative agli incassi del cinema. L’arte non serve più, è un passatempo, intrattenimento, il riempire delle ore. L’appiattimento è totale e allora chi si esalta ancora per le denominazioni artistiche è un pazzo”.
L’esperienza con il cinema di Tinto Brass?
“Non la rinnego certo. Anzi. I film di Tinto sono stati onesti, non c’erano scorciatoie, il lato B era il lato B. E erano film fatti da uno dei grandi registi italiani, cineasta di alto livello che ha fatto anche molto altro oltre alle pellicole erotiche, come Dropout, o Lavorare stanca. Brass nel cinema di oggi sarebbe grasso che cola. Oggi l’arte è spesso solo ‘alimentare”. Come diceva il grande Vittorio De Sica: “Faccio questo film ‘alimentare’ perché mi serve per giocare al casinò”.


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