Carofiglio con "La manomissione delle parole": contro la sciatteria per un'etica del linguaggio

Di Viola De Vivo

Magistrato, parlamentare, scrittore, Gianrico Carofiglio ormai da qualche anno si dedica anche al teatro. Ma non chiamatelo attore: “Sono uno scrittore che legge i suoi testi”, tiene a precisare. Eppure La manomissione delle parole, in scena al Teatro Nuovo di Napoli dal 10 al 13 maggio (produzione Teatro Kismet OperA), è più di una semplice lettura: una conversazione collettiva condotta a partire da citazioni dei personaggi più disparati, da Dante a Calvino, da Obama a Bob Dylan, e accompagnata da improvvisazioni e da momenti musicali, affidati al fagotto di Michele Di Lallo. Lo spettacolo nasce dall’omonimo saggio, che a sua volta prende vita da una finzione letteraria: Carofiglio lo scrive dopo averlo inventato nel romanzo Ragionevoli dubbi come lettura dell’avvocato Guerrieri. Manomissione significa alterazione, ma nel diritto romano era la cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato. I due significati coesistono nella visione di Carofiglio, secondo cui solo smontando e rimontando le parole, logorate da un uso improprio, è possibile restituire loro libertà e verità.
Carofiglio, come nasce l’idea di misurarsi con il teatro?
“Nel 2010, insieme a un gruppo di jazzisti tra i quali mio fratello, realizzammo uno spettacolo con brani tratti dai romanzi dell’avvocato Guerrieri. Girammo tutta l’Italia e ci divertimmo moltissimo. Quella prima esperienza teatrale per me è stata come uno shock positivo: ho scoperto che parlare con il pubblico, leggendo, improvvisando e giocando con la musica, mi piace molto; così, quando mi è stato proposto di mettere in scena La manomissione delle parole, ho accettato con entusiasmo”.
La manomissione delle parole da invenzione a saggio, a pièce teatrale: è una creatura che cresce e si trasforma…
“Non solo, ma in Campania ne vedrete una versione nuovissima: proprio in quei giorni uscirà Con i piedi nel fango, un piccolo saggio su politica e verità che è lo sviluppo ideale de La manomissione. Alcuni pezzi di questo libro integrano il copione originario”.
Chi o cosa è responsabile, secondo Lei, della perdita di dignità delle parole?
“Soprattutto la sciatteria, la mancanza di consapevolezza. Il presupposto fondamentale della ‘manutenzione’ delle parole, che è il passaggio successivo, è la consapevolezza della responsabilità della parola. Una frase di Primo Levi, aggiunta al nuovo copione, dice: “Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno”. Parlare e scrivere implicano una dimensione etica fondamentale: dimenticare questo porta alla perdita di significato, e quindi alla perdita di democrazia”.
La pièce intreccia lettura e improvvisazione: da cosa prende spunto per improvvisare?
“Attualità, aneddoti. C’è un 15% dello spettacolo che è diverso ogni volta, perché nasce da come mi sento e da come entro in rapporto col pubblico”.
Come mai la scelta di duettare con un fagotto?
“Il fagotto ci sembrava molto adatto a dialogare con la voce umana come fosse un’altra voce, e poi è uno strumento molto scenografico. Il musicista è dietro una grande tela bianca: se ne vede solo la silhouette. I passaggi drammaturgici sono introdotti da pezzi musicali a volte molto pertinenti, a volte del tutto eccentrici. C’è di tutto: da Stravinskij a Nino Rota, da Michelle dei Beatles alla Pantera rosa, con un finale epico a sorpresa”.
In conclusione, cosa possiamo fare oggi, in concreto, per ridare dignità alla parola?
“Potete venire a vedere lo spettacolo. La manomissione delle parole è una forma di teatro civile ma, lungi dall’essere un’esibizione seriosa, ha una prima parte che fa molto ridere. Insomma contiene registri diversi, dalla comicità fino alla dimensione drammatica e seria della riflessione sul presente e sulla necessità di trasformarlo”.


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