Con Sergio Rubini Dostoevskij diventa un radiodramma in diretta

di Roberto D'Avascio

Incontriamo Sergio Rubini in platea, mentre si provano le suggestioni sonore del suo ultimo spettacolo Delitto/Castigo – una produzione di Nuovo Teatro diretto da Marco Balsamo – del quale cura la regia, condividendo la scena con Luigi Lo Cascio, e che sta girando l’Italia passando al Parravano di Caserta dal 27 al 29 aprile dopo essere stato al Bellini di Napoli.
Rubini, perché questo titolo con le parole “delitto” e “castigo” separate da una barra?
“Ho già lavorato anni fa su questo libro, era uno studio più che uno spettacolo, fatto in un piccolo teatro, e in questo primo esperimento, che avevo chiamato Una sera delitto una sera castigo, io provavo a pescare degli spunti da questo romanzo sconfinato, che non si potrebbe rappresentare interamente sulla scena, alternando le serate dedicate al delitto e quelle del castigo, estrapolando delle scene, ma senza una valenza morale”.
Che cosa racconta Dostoevskij? Perché la ossessiona questa storia?
“Credo che il romanzo non racconti un castigo morale, ma una pena utilitaristica. In ognuno di noi si annidano delitto e pena. Per lui la capacità di pentirsi è un dono innato. Questo credo sia il suo cristianesimo. Il castigo è una croce, ma anche la nostra umanità. Lo spettacolo racconta dei flash sul delitto e sul castigo, non necessariamente correlati. Questa storia mi affascina da sempre: Dostoevskij non ci giudica mai, ci assolve sempre. Pur raccontando personaggi che si dannano, li abbraccia sempre, con tutti i loro orrori e miserie. Si tratta di una letteratura molto umana e non giudicante, che ci accoglie”.
Quanto è difficile mettere in scena un testo così denso spiritualmente, per trasformarlo in materia?
“La scenografia non realistica di Gregorio Botta rappresenta bene l’impianto mentale di Raskolnikov. Non ho fatto un adattamento teatrale, per questo in scena ci sono dei fogli: tutto è partito dalla volontà di un reading che restituisse una suggestione dostoevskiana, isolando dei punti chiave, coinvolgendo lo spettatore soprattutto in un certo clima. Per questo sono partito dai rumori e da un universo sonoro, di cui il romanzo è pieno: scalini percorsi, porte che si aprono, i passi sui pavimenti. Sono partito proprio dall’idea di una lettura accompagnata da suoni, quasi un vecchio radiodramma in diretta con il fonico presente”.
Che tipo di teatro sta proponendo attraverso l’autore russo?
“Il teatro tradizionale non mi affascina, da spettatore più che da teatrante. In quanto spettatore moderno sono più interessato al “backstage”, che non allo “stage”, sono pronto ad un rapporto dialogico con la scena. Basta barbe finte, infingimenti e carta da parati. L’attore oggi deve saper raccontare anche il processo di uno spettacolo: da qui chi va a teatro può trovare un senso a ciò che vede sul palcoscenico. Dopo tanta avanguardia nel ’900, il teatro contemporaneo deve spogliarsi di certe convenzioni in rapporto alla maturità dello spettatore”.
La sua drammaturgia sul testo si può definire polifonica, riprendendo una citazioni di Bachtin?
“Sono partito da due voci. Il tema della polifonia riecheggia nel doppio. Raskolnikov è doppio, ma ogni personaggio ha questa duplicità rispetto agli altri e a se stessi. Quindi, una lettura a due voci sulla scena. Ci sono tanti cappotti appesi: sono dei fantasmi, ma anche le convinzioni filosofiche del protagonista, affascinato da categorie quali il nichilismo, l’utilitarismo, il superomismo. E poi arriva l’omicidio possibile della vecchia usuraia per salvare l’umanità, e dopo del suo doppio che è la sorella, non colpevole. Qui crollano tutti i cappotti sulla scena. Da qui la palingenesi del protagonista”.



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