Mimmo Borrelli con "La cupa" al San Ferdinando


di Emma Di Lorenzo

Dal 10 aprile al 6 maggio a Napoli, al San Ferdinando, Mimmo Borrelli porta La Cupa, uno spettacolo in due parti, diviso tra date separate e giorni di ‘maratona’. È prodotto dal Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale. “Quando il teatro diventa scienza inesatta dell’umanità, è allora che arriva a tutti” racconta Borrelli. “Il paradosso dell’attore è questo: è un lavoro che nasce dalla necessità di esprimere quello che si sente dentro, il mistero di se stessi. Su questo filo molto sottile camminiamo noi attori. Quando sono stato al Piccolo di Milano, per Sanghenapule con Roberto Saviano , sono rimasto molto colpito dalla professionalità dello staff. La loro perfezione permette alla compagnia ospite di essere completamente a proprio agio, eppure io controllavo comunque ogni aspetto dello spettacolo. Questa abitudine nasce da una crisi, che per Napoli è, paradossalmente, la più grande forza di questa città. La storia insegna che, sull’orlo del baratro, o dopo una catastrofe, l’arte rinasce e fiorisce, imponendosi sulle avversità”. La Cupa, dal sottotitolo Fabbula di un omo che divinne un albero è una storia, in versi e canti, raccontata dal linguaggio unico di Borrelli e dalla presenza in scena di Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio e Autilia Ranieri. Dopo la Trilogia dell’Acqua, composta da ’Nzularchia del 2003, sull’infanzia violata, ’A Sciaveca del 2006, sull’amore ‘inzozzato’ dal mare, e La Madre: ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimma del 2010, allegoria della maternità, con La Cupa il drammaturgo e regista napoletano racconta la Trinità della Terra. Al centro, temi cari all’artista, che descrive così il suo lavoro: “Affonderò le mie peregrinanti autoanalisi nei versi del mio inconscio e affiderò il suo affiorare in getto e spruzzo furibondo alla pagina prima, alla scena poi, senza intralcio di naturale consequenzialità e, dunque, senza poter prescindere dalla mia stessa carne  messa in compromissione, negli atti presenti della mia stessa vita, indagando sulla paternità e le sue e le mie paure, non così tanto nascoste”. Poesia, la sua, che si accompagna ad una grande attenzione per il pubblico e ai suoi cambiamenti: “Credo che la chiave sia nel contatto diretto, il pubblico deve essere in scena con l’attore. Nell’era degli smartphone, dobbiamo dare agli spettatori qualcosa di più forte e diretto rispetto a ciò che possono ottenere, con immediatezza e in qualunque momento, dalla tecnologia”. C’è Napoli nel teatro di Borrelli? “La mia conoscenza diretta del teatro napoletano è molto recente, si può dire che parta dal 2000, anche se ho cercato di carpire tutto il possibile dagli archivi. Ho iniziato a recitare da giovanissimo, a 15 anni. Un ricordo in me molto vivo riguarda le paghe, un aspetto apparentemente troppo materiale. Ma cosa è il teatro, se non materia? Nel mio primo spettacolo, Putiferio di Viviani, con la regia di Nello Mascia, guadagnavo già 50 mila lire al giorno e mi sentivo un privilegiato. Attualmente i fondi mancano, soprattutto per ciò che concerne i giovani. A loro consiglio spesso di lasciar perdere, a meno che non siano disposti a fare un patto con il diavolo, perché le condizioni di lavoro sono insostenibili e questo è un aspetto da non sottovalutare. Sono tanti i giovani di talento e non pagarli implica sminuire il teatro, l’unico evento democratico che ci è rimasto”.



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