“MACBETTU” Di Alessandro Serra – Tratto dal “Macbeth” di William Shakespeare


Al Teatro Bellini di Napoli dal 12 al 17 febbraio
di Antonio Tedesco

Napoli -  Sembrerebbe superfluo dirlo, ma c’è qualcosa che ancora fa la differenza. Qualcosa che soltanto un certo tipo di spettacolo può ancora dare. Quella scintilla emotiva del “qui e ora” che in certi casi (non sempre) è ancora possibile trasmettere. Ma perché questa scintilla passi e diventi una vera “corrente” che scorre tra palcoscenico e platea occorre che venga caricata di forza, coraggio, passione. Solo il coinvolgimento del “fattore umano”, spudoratamente sviscerato dalle azioni dei corpi che abitano lo spazio scenico, può ancora rompere, forse, l’assedio digitale.
E così, dopo Bestie di scena, che dell’esposizione del corpo (attoriale) nel nudo spazio del palcoscenico fa quasi una parabola universale (una sorta di “teatro-mondo” ridotto alla cruda evidenza dei suoi elementi di base) ecco che, sempre al Teatro Bellini, possiamo assistere, ma forse è meglio dire “partecipare”, ad un’altra celebrazione del teatro inteso come rito ancestrale, come riscoperta e riaffermazione delle origini (nobili e selvagge a un tempo) delle passioni umane e della loro rappresentazione.
Anche qui, come per lo spettacolo della Dante ciò che conta è il corpo dell’attore, il suo abitare lo spazio della scena come fosse un luogo intimo e alieno allo stesso tempo. Polvere, pietre, metalli, suoni gutturali, voci che articolano una lingua aspra e musicale insieme. Tutto tangibile e concreto. Tutto che arriva come una scossa violenta allo spettatore che, alienato dal virtuale, riscopre la matericità dell’emozione. Solo un teatro così, essenziale, duro, diretto, può avere senso oggi. Non è più sufficiente affidarsi a dispendiose messe in scena e sofisticati supporti tecnologici. Ciò che occorre adesso è la verità data da carne, sudore e polvere.
E quale tragedia più che quella di Macbeth di Shakespeare può prestarsi a un tuffo spericolato negli anfratti più oscuri e riposti dell’animo umano? E allora, il regista Alessandro Serra, avvalendosi della consulenza linguistica e della traduzione di Giovanni Carroni, mette in scena la sua versione del cupo dramma shakespeariano ambientandola in Barbagia e recitandola in stretta lingua sarda. Una felice intuizione che trova la corrispondenza tra epoche e luoghi in un rapporto primordiale con una natura aspra che sembra riflettersi nell’animo degli uomini che la vivono (in un certo senso Macbeth è sconfitto da una “foresta che cammina”) materializzandosi in una sete sconsiderata di potere quasi a voler, attraverso quello, addomesticare una natura inaddomesticabile. Tutto ciò traspare con molta evidenza in questo Macbettu che Alessandro Serra carica della detta forza materica che è proprio in quella natura e nelle cose stesse che contiene, e in grado, per questo, di schiacciare i personaggi e le loro passioni, nel loro effimero dibattersi. Forse sono solo le tre streghe stralunate  e buffe (una sorta di gruppo di “idiot savant”) che si rivelano, come da copione, le più sagge e lungimiranti.
Una compagnia tutta al maschile, come da tradizione elisabettiana che trova corrispondenza, forse, anche in certi aspetti della cultura dell’entroterra sardo, conferisce un ulteriore senso di chiusura soffocante, di cupezza interiore, perfettamente resa dalla costante penombra in cui sembra calata la scena e dalla versatilità dei pochi ma funzionali elementi scenografici utilizzati. Coinvolgente e di grande impegno fisico la prova degli attori: Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino.
Ai quali il pubblico della “prima” ha tributato calorosi consensi.

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