Di
Antonio Tedesco
Al
Teatro Elicantropo di Napoli dal 14 al 16 giugno per il Napoli Teatro Festival
Italia.
Con Erodiade Giovanni Testori mette in gioco il suo rapporto con Dio,
con il teatro e con la scrittura e, in definitiva, con se stesso e con il
mondo. In una sorta di totale identificazione in (e con) tutti questi elementi,
attraverso un testo che è un grumo doloroso e sanguinolento di parole alla
disperata ricerca di un senso, di un fine, di un significato ultimo che
continua a sfuggire smarrendosi in un nulla indefinibile e inafferrabile.
Il lavoro, più volte ripreso dal suo
autore in momenti diversi della propria vita e della propria vicenda personale
e artistica, racchiude in sé, in questa figura di donna lacerata nella sua
umanità, incapace di concepire questo “altrove” di cui il profeta Jochanaan
così disperatamente e passionalmente predica (un altrove che forse lei desidera
con maggior impeto nel momento stesso in cui lo nega e lo distrugge), il
conflitto stesso che ha lacerato Testori e di cui tutta la sua opera porta
traccia. Salomè ha già danzato per Erode, ha già ricevuto in cambio la testa
del Battista, ha già sostituito sua madre, Erodiade, appunto, nel cuore e nel
talamo del Tetrarca. Ciò che viene portato sulla scena è l’urlo disperato e
soffocato a un tempo di questa donna orgogliosa e sconfitta. Di questa ex
regina che ha spinto sua figlia ad essere strumento della sua vendetta nei
confronti di Jochanaan che ha sdegnosamente rifiutato le sue profferte di amore
carnale. Consapevole del fatto che le conseguenze di tale vendetta sarebbero
ricadute su di lei in maniera altrettanto gravosa, quasi a voler accomunare la
propria sorte a quella dell’amante con tanta forza desiderato. E a trovare nel
sacrificio quell’unione che egli le aveva negato nella carne. Tutto questo
viene espresso nel testo attraverso una lingua forte, colorita, piena di
immagini e sfumature, una lingua che si fa teatro nel corpo e nella voce di
Imma Villa che, col supporto di pochi elementi e la sua magistrale presenza
scenica, conferisce al personaggio di Erodiade uno spessore e un’umanità
profondi ed incisivi. Con i movimenti ridotti al minimo, per lungo tempo
immobile, perfino simbolicamente crocifissa ad un grosso disco con su incise le
lettere del Cristogramma, assecondata ed esaltata dal magistrale gioco di luci
di Cesare Accetta, e con la regia di
Cerciello che evidenzia con efficace sobrietà i vari livelli del testo
trasformando la scena in una specie di altare sacrificale dove, nell’annaspare
nel vuoto delle umane passioni, si celebra una sorta di “de profundis” che
attraverso Erodiade l’autore intona per sé, per il teatro stesso e, in
definitiva, per l’umanità tutta.
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