Sepe affronta Sara Kane con ritmo, poesia e musicalità

"Crave" alla Sala Assoli di Napoli fino al 13 dicembre

di Maddalena Porcelli
 
“Crave”, tratto da un testo della drammaturga inglese Sara Kane, è un dramma per voci che il regista Pierpaolo Sepe interpreta e riporta in scena per la seconda volta, nella Sala Assoli di Napoli, dal 10  al 13 dicembre, con la produzione della Casa del Contemporaneo.

Sepe, l’autrice s’ispirò al poema di Thomas Stearn Eliot “La terra desolata”… In che modo ha affrontato la traduzione del testo?

“Mi sono avvalso della traduzione di Barbara Nativi, la drammaturga che per prima ha tradotto e fatto conoscere al pubblico italiano l’opera di Sara Kane. In realtà, il lavoro che precede la messinscena ha comportato per tutti un enorme sforzo, soprattutto nel cogliere il colore emotivo, pur rimanendo attaccati a un criterio quasi algebrico di restituzione ritmica del tempo. Per fortuna gli attori Daria D’Acunto, Gabriele Colferai, Gabriele Guerra e Morena Rastelli sono stati bravissimi e sono riusciti a incarnare le quattro storie che poi forse è una storia unica. Essendo un’opera poetica, dotata di ritmo e musicalità, è chiaro che la traduzione abbia comportato inevitabilmente una compromissione rispetto all’originale. Del resto anche Shakespeare è di difficile traduzione, basti pensare al Blank verse, dove forse si riesce a salvare la poetica intima ma dove il risultato musicale è decisamente pregiudicato. Per quanto riguarda il riferimento alla fonte, vorrei puntualizzare piuttosto una differenza sostanziale con “La terra desolata” e cioè che Crave non racconta scene di vita quotidiana, ma è tutto incentrato sulle voci interiori che in quanto tali non esprimono un senso compiuto ma restituiscono al pubblico immagini di grande forza emotiva”.

Come ha concepito la messinscena?

“Ci sono corpi, spasmi, urla, corse… C’è una gabbia, che rappresenta la prigione in cui è confinata la coscienza. E luci…Tutto si traduce in immagini.  E’ come se queste persone non avessero accesso alla luce, a una possibilità altra. Quei corpi, che il testo non prevede, ha determinato che io mi arrogassi il diritto d’interpretare e tradire allo stesso tempo. Ma è certo la mia visione, la mia angolazione, non vuole essere fedele. I personaggi, giammai descritti, privi di un’identità precisa, avulsi da un qualsiasi contesto, deprivati di ogni caratteristica di realismo psicologico, come nello stile adottato dalla Kane, sono semplicemente immagini derivanti da un’interiorità in conflitto, che annaspano alla ricerca di un senso che non troveranno. Si muovono come animali braccati, alla ricerca di una via d’uscita che non c’è”.

Crave fu definita dalla critica come l’opera che liberava finalmente la scena dall’esternazione di atti violenti che avevano caratterizzato le  opere precedenti della Kane, per restituirci  segni tangibili di rinnovata speranza, ma su questo l’autrice non fu d’accordo, poiché la considerava, tra le sue opere, la più disperante…

“Credo che mai la Kane abbia voluto rappresentare la violenza. Questo è stato a lungo il luogo comune di una critica che non ha saputo comprendere la sensibilità della drammaturga. Sara Kane è stata innanzitutto una poetessa, capace di percepire gli stati interiori con una profondità d’indagine al di fuori di ogni norma, che ha esplorato così a fondo le forme di relazione tra il soggetto e la realtà esterna, che ha toccato  a tal punto questo processo da non riuscire più a trascenderlo”.  

Cosa è il male che descrive Crave? 

“Male, violenza e brutalità appartengono alla sfera emotiva e riflettono una società spietata, i cui effetti ricadono sulle persone e sulle azioni ch’essi compiono. Cade, o è quantomeno labile, il confine tra l’interiorità e la realtà esterna. Tuttavia Sara Kane ha sempre cercato di comprendere come fosse possibile amare e sperare, nonostante il mondo fosse sordo e cieco di fronte alle emozioni e a sentimenti così forti e devastanti. Forse proprio questa consapevolezza rispetto al conflitto, considerata la sua fragilità emotiva, ha segnato la sua rinuncia alla vita”.
Può raccontarmi, invece, delle sue speranze in merito all’esperienza svolta all’ex asilo Filangieri, dove ha svolto un’interessante attività laboratoriale, incentrata su “L’uomo in rivolta” di Albert Camus?
“Realtà come quella dell’ex Asilo Filangieri ci restituiscono un senso ideale da coltivare. Sono luoghi di condivisione, in cui la cultura dell’arte e della rappresentazione teatrale viene sottratta alle regole di mercato fondate sulla divinazione del denaro. E’ stata un’esperienza fantastica, basata sull’intensa collaborazione di tanti operatori del settore e che mi auguro, anzi ne sono certo, avrà una continuità temporale. D’altra parte, al di là di queste ammirevoli realtà giovanili, da cui sono un po’ fuori per questioni cronologiche, non posso negare una certa angoscia che mi deriva dall’impossibilità di sopravvivere economicamente con il mio lavoro che continuo, nonostante il grigiore dei tempi, ad amare”.

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