Zingaretti: due storie e tre attori per mettere l'uomo allo specchio- The Pride

Di Germana Squillace
Destino, amore, fedeltà e perdono sono i temi principali di The Pride, opera del drammaturgo americano di origini greche Alexi Kaye Campbell. La pièce, in scena al Bellini di Napoli dal 16 al 28 febbraio, sarà diretta e interpretata da Luca Zingaretti. Protagonisti tre personaggi che sono alla ricerca della propria identità sia nella Londra del 1958 sia in quella del 2015. Un testo impegnativo e enigmatico, ma fortemente voluto dallo stesso Zingaretti: “Quando ho letto il testo per la prima volta sono rimasto molto colpito, ma quando ho deciso di dirigerlo e ho chiesto consiglio a produttori e a registi miei colleghi, su dieci persone, nove mi hanno suggerito: ‘lascia perdere’. E per diversi motivi”.
Quali, Zingaretti?
“Il copione non ha un protagonista assoluto, è stato scritto per un teatro Off, per un pubblico più giovane e tratta temi delicati come l’amore ma, soprattutto, l’identità della persona. E io credo che in questo momento storico sia importante affrontare argomenti del genere. Più mi consigliavano di non impegolarmi in una impresa così complicata e più nasceva in me la voglia di mettermi alla prova. La mia è stata una scommessa e una grande vittoria”.
Scommessa vinta grazie anche alla storia che la pièce racconta.
“Certamente. Le storie sono due e si influenzano l’una con l’altra. Una è ambientata nel 1958, l’altra nel 2015. Per volere dell’autore i tre personaggi principali, Philip, Oliver e Sylvie, sono chiamati con gli stessi nomi in entrambe le epoche e sono interpretati dagli stessi attori; ma c’è un altro personaggio importante che interpreta di volta in volta ruoli diversi. È un testo drammaturgicamente potente che mi ha divertito e commosso”.
Lei interpreta Philip. Quali sono le differenze tra il personaggio del 1958 e quello del 2015?
“Il Philip del 1958 non riesce a raggiungersi. È un uomo adulto che scopre di essere omosessuale ma non ce la fa a vincere i pregiudizi sociali e porta avanti un rapporto con una donna rendendosi e rendendola infelice. Se questo Philip è un omosessuale che si finge etero, il secondo, quello del 2015, è un uomo che ha trovato un modo per vivere serenamente la propria omosessualità”.
The Pride tratta quindi anche di amore omosessuale. Ci sono ancora pregiudizi su questo argomento?
“Penso di sì, ma credo sia normale, considerando da dove siamo partiti. Certo, rispetto ad altri Paesi occidentali, siamo un po’ indietro, ma anche se in Italia c’è tanto da fare, molto è stato fatto”.
Quali emozioni dovrebbe suscitare The Pride negli spettatori?
“Il testo parla alla gente di qualcosa che la riguarda da vicino. Domanda allo spettatore: ‘Quando ti guardi allo specchio vedi una persona che ti piace o hai smesso di decidere della tua vita? Hai il coraggio di viverla o ti lasci trascinare dalla corrente? Hai raggiunto gli obiettivi che ti eri prefissato?’. Così, la gente quando va a casa ha qualcosa su cui interrogarsi. Credo che il teatro debba far pensare, divertire, emozionare e forse in Italia, negli ultimi venti anni, questa abitudine si è un po’ persa”.
Ha già avuto riscontri dal pubblico?
“Sì, molte persone mi hanno scritto, anche su Facebook. Altre sono entrate commosse in camerino confessando che lo spettacolo le aveva messe in crisi. Un amico è giunto a dirmi: ‘Dopo averlo visto non sono più lo stesso’”.
Volendo rispondere a una delle domande che The Pride pone alla platea, lei ha raggiunto i traguardi che si era prefissato?
“Gli obiettivi non si raggiungono mai una volta e per sempre nella vita, siamo sempre alla ricerca di un nuovo equilibrio”.

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