La tradizione e Ruccello, nostro contemporaneo

di Enrico Fiore

Come sappiamo, Annibale Ruccello definiva i suoi personaggi «figure deportate»: «deportate», è ovvio, dalla loro cultura originaria e autentica. E tali sono, indiscutibilmente, il protagonista de «Le cinque rose di Jennifer», emblema della mutazione che dal femmeniello (un fenomeno «gestito», una volta, in termini fortemente ritualizzati) ha condotto al semplice travestito (un «oggetto» votato unicamente alla funzione di merce di scambio); l’Adriana di «Notturno di donna con ospiti», privata del suo sistema di valori proletario in cambio dei laceri miti consumistici veicolati dalla televisione; la Ida di «Week-end», una professoressa che ha lasciato il suo profondo Sud per trapiantarsi a Roma, dove impartisce lezioni private a ragazzini tonti e pruriginosi; la Clotilde di «Ferdinando», che la conquista capitalistica del Mezzogiorno ha espropriato del suo status sociale e soprattutto, insieme con la lingua, della sua identità; le quattro donne di «Mamma. Piccole tragedie minimali», che precipitano dalle fiabe della tradizione alla quotidianità insulsa dei nomi (Deborah, Ursula, Morgan, Isaura, Luis Antonio, Andrea Celeste, Dieguito…) affibbiati ai propri figli sulla traccia di un immaginario d’accatto diviso fra telenovelas e pallone; e, infine, l’impiegata comunale di «Anna Cappelli», che nel limbo di Latina rimpiange come un paradiso perduto la camera che aveva a Orvieto nella casa di famiglia.
In particolare c’è da osservare – lo feci già nell’introduzione al «Teatro» di Ruccello pubblicato nel 2005 dalla Ubulibri – che «Le cinque rose di Jennifer», il testo che nell’80 impose Annibale all’interesse e alla stima del pubblico e della critica nazionali, costituisce una vera e propria cartina di tornasole dei mutamenti sociali intervenuti a Napoli in quegli anni. E del resto, non a caso di quell’atto unico l’autore volle offrire, sei anni dopo il terremoto, una nuova versione.
Nel 1980, prima del terremoto, Jennifer abitava in una casa dei Quartieri Spagnoli (o, poniamo, di Soccavo o del Rione Traiano), arredata, lo ricordiamo, con il tenero e patetico kitsch di un paravento a fiori, di una toilette modello diva anni Cinquanta, dei centrini e dei ninnoli finto Capodimonte e di un carrello-bar stracarico di «preziose» bottiglie di liquore. E indossava una vestaglia fatta con le tende di merletto e un abito da sera fatto con la fodera. E ascoltava Radio Cuore Libero, con le canzoni di Patty Pravo, di Milva e persino di Orietta Berti.
Nel 1986, dopo il terremoto, Jennifer abitò in una casa di un quartiere residenziale, arredata con le veneziane, adorna di lacche nere e uccelli d'oro, asettica nei funzionali cassetti che rientravano nelle pareti al pari della toilette e del secchio per l'immondizia. E indossò una vestaglia di raso bianco, un turbante, un abito di lamé e, per andare a battere, il vestito e la parrucca di China Blue, protagonista dell'omonimo film di Ken Russell. E ascoltò una radio che, figuriamoci, si chiamava Enola Gay (come il bombardiere B-29 Superfortress che sganciò l’atomica su
Hiroshima!) e trasmetteva le canzoni di Raffaella Carrà, della Mina-strenna natalizia e, al massimo, dell'agghiacciante Gabriella Ferri di «Addo' sta Zazà».
Fra l’altro, proprio un simile processo di accumulo delle varianti di uno stesso testo portava al tema di Napoli in quanto città «travestita» per eccellenza: una città in cui, di fronte all’impossibilità di produrre sul versante del sentimento, si assisteva a una diffusa canalizzazione dell’intero apparato culturale e delle relazioni interpersonali. E Jennifer, dunque, si faceva simbolo di una pratica di scrittura drammaturgica che non parlava di Napoli, ma, puramente e semplicemente, era Napoli: una scrittura che assumeva Napoli come corpo storico, visto, sentito e patito - lungo il suo divenire e trasformarsi - senza alcuna preclusione ideologica e, ciò che più conta, senza il timore di «sporcarsi» con le sue contraddizioni.
In questo senso, parliamo di un autore nel quale s’incarna la nostra memoria: perché il merito raro del drammaturgo Annibale Ruccello risiede nel fatto ch’è stato un uomo del suo tempo, capace di coltivare strenuamente la coscienza delle proprie radici senza con ciò rinunciare all’indagine, insieme accorata e lucidissima, sul presente. Ed è anche per questo, ovviamente, che Annibale ci manca.
Manca a me personalmente, intanto. Giacché penso alle sere di Castellammare – la città di Ruccello, dove anch’io ho trascorso gran parte della vita – in cui, varie volte, mi son fermato con lui davanti alla porta del circolo velico, assieme ad altra gente, ed avevamo per panorama luci lontane sull’acqua buia. Dall’albergo vicino trasparivano fino a noi suoni di chitarra e di fisarmonica – probabilmente una festa di nozze, e non sapevamo se invece fossero le musiche del film che davano nel cinema all’angolo. Tuttavia, continuavamo a discorrere, e a turno uno parlava e l’altro ascoltava. Così, sono stato testimone e in qualche modo «complice» o addirittura ispiratore, credo, del primo manifestarsi delle suggestioni e delle idee che poi avrebbero condotto Annibale a scrivere i testi bellissimi che conosciamo.
Però manca, Ruccello, anche al teatro asfittico che balbetta sui palcoscenici di oggi, affetto da due vizi estremi ed opposti: per un verso la pigrizia del rinchiudersi in una tradizione malintesa (i famosi o famigerati «classici», sempre gli stessi e riproposti a scadenze più o meno regolari con la stessa superficialità scolastica) e per l’altro la protervia dell’abbandonarsi a una «sperimentazione», malintesa a sua volta, che o stravolge quei «classici» fino a renderli irriconoscibili o prende la strada di presunte «novità» (autorali e registiche) fondate solo su velleitarismi intellettualistici.
Il teatro di Annibale Ruccello, invece, fu immune – per virtù d’intelligenza e grazia d’invenzione – sia dal primo che dal secondo di questi vizi. Ma adesso, nel concludere, debbo correggermi: non ci manca, Annibale Ruccello; giacché, se per sua natura un autore teatrale si compie (ed esiste veramente) solo sul palcoscenico, nei trent’anni trascorsi dalla sua morte Annibale non se n’è mai andato. I suoi testi continuano ad essere rappresentati.

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