Marco Paolini diventa fantascientifico

Di Federica De Cesare


Dal 9 al 13 novembre al Teatro Nuovo di Napoli e il 15 novembre al Gesualdo di Avellino, Numero Primo “Studio per un nuovo album”, lo spettacolo prodotto da Jolefilm e dedicato alla tecnologia interpretato e diretto da Marco Paolini che è anche autore del testo insieme a Gianfranco Bettin.
Paolini, uno spettacolo fantascientifico a teatro è una vera e propria scommessa.
“La fantascienza ha un orizzonte cinematografico, a teatro bisogna sicuramente fare i conti con la potenza visiva del cinema attraverso la forza della parola. Tuttavia il futuro è qui affrontato non come orizzonte per immaginare, ma per riflettere su dei segni che sono già presenti intorno a noi.
Il periodo in cui viviamo è stato battezzato antropocene, noi siamo diventati una forza della natura determinante del cambiamento, al pari di acqua e aria. E questo è già un primo segnale di pericolo”.
Uno spunto di riflessione sulla tecnologia quale elemento di disumanizzazione dal quale diffidare?
“Attenzione, la sfumatura è diversa: noi tendiamo ad immaginare l'umano come una cosa naturale e l’artificiale come qualcosa di disumano. In realtà, da quando siamo su questo pianeta, abbiamo cominciato a munirci di “cose”, di artifici. Oggetti che io definisco sapiens, perché il loro funzionamento è strettamente collegato all’intelligenza umana e questo determina, in realtà, un’organizzazione della vita che dipende da questi artifici”.
In che modo questo discorso viene affrontato attraverso il tema della paternità?
“Gli oggetti ci accompagnano da quando abbiamo incominciato a colonizzare questo pianeta, solo che questo ha evidentemente dimensioni tali per cui adesso ne parliamo con cautela.
Il tema della paternità è essenziale perché quasi sempre consideriamo le cose come slegate da noi, mentre sono il frutto del nostro estro, creazioni della mente di uomini illuminati.
Nel momento in cui le sentiamo minacciose tendiamo a buttarle metaforicamente fuori casa, anche se fanno in realtà parte della nostra famiglia, perché la tecnologia in qualche maniera ci è figlia. È comodo disconoscere la paternità di tutto questo e incarnare l’occhio dello spettatore, ma non è questa la soluzione al problema. Il mio obiettivo è proprio insinuare nel pubblico uno spunto di riflessione”.
E se dovesse invece immaginare il futuro del teatro, come lo vedrebbe?
“Woody Allen diceva che lo spettacolo dal vivo avrebbe resistito a qualsiasi nuova forma mass mediatica. Io non credo che il teatro possa giocare in difesa, questo spazio va riconquistato.
L'idea di sconnettersi e andare per chiudersi in uno spazio per un certo tempo, senza mantenere un contatto continuo con il resto del mondo, potrebbe diventare un trauma.
Quindi, o ammettiamo che dentro al teatro si possa mantenere questa connessione, o rischiamo di andare incontro ad una situazione culturalmente insopportabile.
Il mio lavoro nasce proprio dall’osservazione del pubblico in sala. Durante lo spettacolo le persone diventano blu e chiacchierano costantemente. Cose che prima potevano essere fatte dopo, adesso divengono impellenti. Tutto questo cambia la percezione dei luoghi, delle cose e l'importanza delle cose. Se l'attore sul palcoscenico diventa lo sfondo del mio privato, se il mio privato social diventa prioritario, è chiaro che anche la natura del teatro è destinata a cambiare.
Tuttavia il cambiamento non va subito, ma immaginato e orientato al fine di dare nuovo slancio al settore".

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