Dalbono, un Cristo laico nel "Sangue" di Edipo

Di Angela Matassa

Definisce il suo nuovo spettacolo “un concerto in forma drammatica, un viaggio musicale nella classicità”. Pippo Delbono, attore, autore e regista controverso e pluripremiato, lavorando sul mito di Edipo, realizza Il sangue, in scena al Teatro Nuovo di Napoli dal 15 al 18 dicembre. Con Petra Magoni, che lo accompagna con le parole e con le note, con Ilaria Fantìn, che crea un tappeto musicale suonando antichi strumenti come liuto, opharion, oltre a oud e chitarra elettrica. Su una scena quasi vuota, Delbono, quale cristo laico, racconta e mette in musica una storia antica e moderna, religiosa e profana, che parla di sé e di tutti, di madri e padri, di dolore, di vita, di morte. I temi della sua drammaturgia.
Delbono, è ancora un mito o un Edipo dei nostri giorni, quello che ci mostra? 
“Punto sull’uomo che scappa, che diventa esule, condannato e buttato via perché ha ucciso il padre. Nella messinscena, la sua storia diventa un canto. Da anni, infatti, il mio percorso è più vicino alla musica che alla narrazione”. 
Ha scelto Peri, Caccini, Monteverdi per celebrarlo.
“Ma c’è anche un omaggio al mio amico Lou Reed. È un concerto sul cielo e sulla terra in cui entrano Leonard Cohen, Sinéad O’Connor e Fabrizio De André”.
Sangue è pure il titolo di un suo film, ma con un soggetto diverso, perché li ha chiamati allo stesso modo?
“Faccio spesso un cammino intorno a un tema e perché no, intorno a un nome. Ho bisogno di starci dentro per non perdermi. “Sangue” mi sembra una parola importante che può dire tante cose. Il film su Giovanni Senzani narra una storia violenta, di un personaggio scomodo, considerato un mostro e come tale scacciato. Ecco, Edipo lo vedo così: bandito dal resto del mondo. Però, l’articolo ‘il’, che ho anteposto al titolo teatrale, lo rende più amorevole. Provo compassione per questi esseri fragili, deboli, esiliati, uccisi, vedo in loro qualcosa di vero”.
Come sempre nei suoi lavori, sacro e profano convivono.
“Il teatro è rito. Il teatro contamina tutto. La sacralità per l’artista è molto importante, trascende l’esistenza, il tempo, le categorie; porta in sé il concetto sia di vita che di morte. Se per sacro poi intendiamo la religione, allora è diverso: preferisco una fede senza Dio, anche se trovo interessante quel che fa questo Papa, che chiede scusa per Lutero, c’è in questo un empito rivoluzionario. Questioni che affronto in “Vangelo”, film e spettacolo, con cui verrò a Napoli, città che amo molto, l’anno prossimo”. 
Altro tema prediletto è la maternità. Qui è ancora autobiografica come in “Orchidea”?
“C’è mia madre, ma non è la mia mamma, cattolica fervente, è cresciuta ormai. Ha fatto un suo cammino, ne ricordo gli occhi belli e i ravioli della domenica, ma la porto nel ventre non più nella testa, com’è giusto che sia, dopo l’inevitabile separazione, e quindi diventa anch’ella sacra. È come se da una pianta si prendessero i semi per dar vita ad altro. Così, il privato diventa politico”.
Qualcuno la critica perché mette sul palcoscenico il suo attore-feticcio Bobò, sordo-muto libero dopo quarant’anni di manicomio. Che cosa risponde?
“Che non sanno che Bobò è stato definito il più grande attore vivente. Che ha varcato teatri importanti, ha fatto film, mostre, che porta la vera memoria di Eduardo e la rivoluzione dell’Arlecchino. A me ha cambiato la vita, ho costruito la mia arte intorno a lui, alla sua storia di dolore. Bobò è gioia, è forza. Solo chi è snob può credere che io lo usi. Solo chi non ha occhi per la bellezza può pensarlo”.





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