Di Anita Curci
Carlo
Cecchi interpreta il “lui” in Il
lavoro di vivere, dove
l’amore di una coppia appare a sprazzi in un clima fatto di insulti
e rimpianti, fallimenti e commiserazione. L’autore del testo,
Hanoch Levin, il maggiore drammaturgo israeliano contemporaneo
(1943-1999 ), immagina che Yona, confrontandosi con la moglie Leviva
(Fulvia Carotenuto), evochi i tormenti e le inquietudini della sua
città,Tel Aviv, della tradizione ebraica, dei pregiudizi di quella
cultura.
“Si
tratta di un marito e di una moglie in crisi, perché il loro amore è
ormai logorato da una lunga convivenza. Quando Yona guarda Leviva,
scopre quanto il matrimonio sia una prigione - costruita oltretutto
sulla menzogna - dalla quale cerca di fuggire, dopo una relazione
durata trent’anni. Lei è il simbolo del suo fallimento - spiega
Cecchi - a cui egli cerca di reagire con parole spesso violente e
graffianti. La storia, benché ambientata in Israele, potrebbe
accadere tranquillamente in Italia, dove abbondano personaggi
mediocri come il mio, che cercano nella fuga un’illusoria
salvezza”.
La
pièce raccontata da Levin ha caratteri universali che Andrée Ruth
Shammah porta per la prima volta in Italia, occupandosi anche della
traduzione dal francese e dall’ebraico insieme a Claudia Della
Seta.
“Ho
lavorato molto sul testo - racconta la regista - ma anche sullo
spazio e sulla luce, creando una drammaturgia ad hoc; mi sono
soffermata su ogni dettaglio, immaginando una camera con al centro un
letto rivestito di bianche lenzuola, una camera dove si consuma il
rito quotidiano del matrimonio, nel mezzo di una crisi coniugale,
fatta di frustrazioni, annunciate da un violento temporale, e di una
disperata compassione. La commedia, pur trattando situazioni
imbarazzanti, è ricca di poesia. Il lavoro più complesso è stato
quello sugli attori, impegnati in un teatro di parola che tende a
filosofeggiare sul male di vivere”.
Ci
si domanda, allora, in che consiste questo quotidiano “lavoro di
vivere”? “Nelle battaglie quotidiane di piccole coppie in
conflitto, che vivono, in uno spazio ristretto, le loro
incomprensioni; coppie che diventano microcosmo di una intera
società, la cui routine domestica è caratterizzata da una grigia
esistenza. Il percorso dei personaggi delle commedie di Levin
riproduce il ciclo della vita e si misura alla luce del loro
fallimento, col quale attraversano le grandi tappe dell’esistenza.
Il contrasto tra l’energia profusa e il misero risultato genera, da
una parte, situazioni comiche, dall’altra, scene patetiche nelle
quali i personaggi mettono a nudo la loro sofferenza”.
Personaggi
complessi, immaginati da Levin come topi in trappola, sprezzanti,
spietati, allo stesso tempo sarcastici.
“Questo
ruolo l’ho scelto perché è difficile, - confessa Cecchi -
contiene ironia e disperazione, ovvero un tipo di comicità che sta
in equilibrio con la tragedia. L’umorismo è di matrice ebraica, ma
ben si adatta al mio spirito anticonvenzionale. Per realizzare bene
la parte, ho scelto di farmi dirigere da Andrée, che ama gli attori
e sa trarre dalla recitazione elementi interiori che la rendono vera
e non verosimile. E, poi, lei conosce il teatro yiddish, la cui
comicità è costruita sul witz, ovvero sulla battuta ricca di ironia
e sostanza filosofica”.
Lo spettacolo prodotto
dal Franco Parenti di Milano, sarà il 24 gennaio al Comunale di
Caserta e dal 25 al 29 al Teatro Nuovo di Napoli; in scena, tra gli
altri, Massimo Loreto nei panni dell’amico celibe. La scenografia è
di Gianmaurizio Fercioni, i costumi di Simona Dondoni, le luci di
Gigi Saccomandi. Musiche di Michele Tadini.
“Torno
a Napoli - conclude Cecchi – con gioia, io che mi sono forgiato in
modo intenso, ma anche conflittuale, alla scuola eduardiana, dove ho
fatto convivere i miei toscanismi con la lingua dei napoletani, la
mia comicità corrosiva con quella umoristica di Eduardo.Penso che
questa città sia la mia seconda patria, dove trovo tanta
disperazione, ma anche tanta voglia di vivere e di ridere della
disperazione stessa”.
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