Al
Teatro San Ferdinando di Napoli dal 23 marzo al 2 aprile
di
Antonio Tedesco
Napoli -
Ci sono piccole ma significative differenze che rappresentano forse
il segno dei tempi, tra il Don Chisciotte di Cervantes e il Michele
Cervante, immaginato da Ruggero Cappuccio quale suo moderno epigono,
in Circus Don Chisciotte,
di cui lo stesso Cappuccio è autore, regista e interprete, in scena
al Teatro San Ferdinando fino al 2 aprile prossimo.
Il
Chisciotte di Cervantes impazzisce per via dei libri. Di una
particolare categoria di libri, quelli ispirati alle gesta della
Cavalleria Errante di cui è un gran lettore. Letteratura di consumo,
si direbbe oggi. Ma basati sull’esaltazione idealistica di principi
etici rigorosi. Paradigmi di una maniera limpida e leale di stare al
mondo che pochi riscontri trova nella realtà. Alonso Chisciano se ne
inebria al punto di identificarsi totalmente con quelle figure e
farsene epigono nei confronti di un’umanità che non solo non lo
riconosce, ma si fa beffe di lui. Il dramma (buffo) di Don Chisciotte
è tutto qui. Nello scarto decisivo tra la sua visione altamente
idealistica e la realtà bassamente prosaica con la quale tale
visione si scontra. Si trova così a vivere la letteratura, la sua
idea di letteratura, come antidoto ad una malattia dell’anima
(meschinità, bassezza, ignoranza, egoismo) che sembra avvolgere
l’umanità intera. Don Chisciotte, nel suo tentativo folle ed
estremo di salvezza, porta i libri nel mondo. Michele Cervante, mosso
dallo stesso urgente anelito, aspira, invece, a portare il mondo nei
libri. Egli, infatti, che millanta essere discendente in linea
diretta dello stesso Cervantes (alludendo, ovviamente, ad un’eredità
ideale), stravolto da una modernità che ha definitivamente sancito
l’esilio dello spirito a favore di un materialismo dilagante, vede
nella letteratura l’unica possibile salvezza. In modo analogo,
seppur più meditato e consapevole, dell’eroe partorito dalla
fantasia del suo presunto avo. Non è tanto un senso di astratta
giustizia che lo muove, quanto la necessità di creare un argine alla
dilagante volgarità che invade il mondo.
Se Don
Chisciotte “esce”, per così dire, dai libri e sfida quello
stesso mondo con il suo sguardo visionario, Michele Cervante vi si
tuffa come fosse l’ultimo rifugio possibile, estremo baluardo a
difesa di ciò che resta della civiltà. La scena (tra le più
efficaci) in cui si tenta di rintracciare telefonicamente alcuni dei
più importanti rappresentanti della letteratura mondiale
contemporanea allude, probabilmente, a quella in cui (cap. VI del
primo volume del Don
Chisciotte) il Curato e il
Barbiere esaminano la biblioteca di Alonso Chisciano per rintracciare
le origini della sua follia. Qui, invece, questi nomi, che poi si
scoprirà essere tutti misteriosamente riuniti a casa del compianto
Umberto Eco (forse con la segreta missione di scrivere il grande
libro definitivo e universale?) sono l’ultimo appiglio di salvezza
per un mondo che, al contrario del Don
Chisciotte originale, è
impazzito anche per la troppa distanza dai libri.
Tutto
questo in Circus Don
Chisciotte è calato in un
contesto che fa del grottesco e del paradosso la sua principale cifra
stilistica. E inserito in un ambiente scenico in cui alle citazioni
letterarie fanno da contrappunto quelle teatrali, dove si allude alla
Commedia dell’Arte, a Shakespeare, a Beckett. Dove il gioco di
parole la fa da padrone e Cervante trova in un buffo (saggio e
ignorante come da copione) vagabondo barbone il suo “Salvo Panza”.
Un piccolo universo marginale che si popola di altri strani
personaggi che vivono nei vecchi vagoni di una ferrovia abbandonata.
Uno spicchio di umanità che si pone ai limiti del contesto sociale
in una condizione forse suo malgrado resistente, affascinato dalle
parole incantatrici di quella sorta di pifferaio magico e straccione
a un tempo, Michele Cervante, appunto, interpretato dallo stesso
Cappuccio, che spalanca davanti ai loro occhi le abbaglianti e
meravigliose illusioni racchiuse in un mondo, ideale e alieno allo
stesso tempo, che nel potere della letteratura ripone le ultime
speranze di salvezza.
Con
l’autore-regista, in scena un estroso e sempre efficace Giovanni
Esposito nei panni di Salvo Panza, insieme a Gea Martire, Ciro
Damiano, Giulio Cancelli e Marina Sorrenti, ognuno dei quali disegna
una variante buffa e grottesca, quasi circense, appunto (nei
fantasiosi costumi di Carlo Poggioli e con le scene cupe e sontuose
di Nicola Rubertelli) di una marginalità che si trasforma in valore,
proprio perché, come afferma Michel Foucault (Le
parole e le cose, 1966),
costretti, come Don Chisciotte, a confrontarsi tristemente con un
mondo dove la scrittura e le cose non si somigliano più.
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