ll Sindaco di Eduardo al Nest, una scelta politica

La commedia, portata ai nostri giorni, denuncia l’ignavia della borghesia

di Antonio Tedesco

Il teatro è un sintomo.  E quando vuole ha la capacità di anticipare, di vedere oltre. Di rialzare la testa scrollandosi di dosso la luccicante superficie di convenzionalità che lo opprime. Di tornare, finalmente ad essere “politico”. Mettendo in campo un’idea semplice e originale al tempo stesso. Quella di riappropriarsi del territorio. E ripartire dalla vita e dal destino di uomini fatti di carne e sangue.
Il Sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo, è un testo politico. La scelta di rappresentarlo al NEST, piccolo e vitale spazio teatrale, situato a San Giovanni a Teduccio, periferia di Napoli, lo è altrettanto. La regia di Mario Martone, napoletano che dirige da dieci anni il Teatro Stabile di Torino, è ancora una scelta politica. Come lo è la decisione della ELLEDIEFFE, fondata da Luca De Filippo che detiene i diritti delle opere di Eduardo, di affidare questo testo agli attori del NEST. E poi c’è uno Stabile, Teatro Nazionale del Nord, di Torino appunto, che si associa a questa operazione e decide di sostenere e promuovere  una piccola realtà periferica di Napoli, che ha la forza e la capacità di far sentire la sua voce. 
Cosa c’è di più politico di questo?  
Il segnale è forte e andrebbe letto e interpretato da chi finge di non vedere e non sentire.  Ma al momento buono, come il personaggio di Arturo Santaniello nel testo di Eduardo, colpisce e uccide. Per paura, per vigliaccheria, per salvaguardare i propri interessi.   
Il teatro ha una funzione sociale. Deve partecipare in maniera attiva e concreta alla realtà del luogo in cui opera. Non basta ai programmatori sciorinare titoli di testi altisonanti e nomi di prestigio. Non confondiamo, per favore, le passerelle con il teatro.
Questa versione del “Sindaco”, vista al NEST e poi programmata al Teatro Gobetti di Torino, è fortemente politica anche perché non si limita al semplice “mettere in scena” (esibire) un testo famoso, ma ci scava dentro, fino a rimodellarlo su una realtà che ci appartiene. E non solo a Napoli e ai napoletani, ma a tutti.
Il corpo di Barracano trafitto da una coltellata è il corpo stesso della città (ma forse dell’intera umanità) ferita e offesa.
E il finale tronco che taglia i dubbi moralistici del dottore è un atto d’accusa ad una borghesia ignava che sta alla finestra, si gode lo spettacolo e prende quello che le serve (“Mi piace seguire i fatti di cronaca” dice Santaniello mentre Barracano gli racconta la sua vicenda giudiziaria).
 “Santanie' parl’ tu” gli intima il dottore , quando gli uomini di Barracano incalzano per sapere come è morto il loro capo.
E cala il buio. Perché Santaniello non può, non sa, e non vuole dire niente.
Tutto la rappresentazione è percorsa da una tensione forte, tangibile, che si trasmette direttamente dal corpo degli attori al pubblico in sala. E’ grazie a loro (a Francesco Di Leva, Giovanni Ludeno, Massimiliano Gallo, Adriano Pantaleo e a tutti gli altri),  a questa tensione che si trasforma in energia, alla forza e alla verità che mettono nei loro personaggi, che questo spettacolo, questo Teatro, ritorna, finalmente ad essere politico e, soprattutto, necessario.

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