Tra i maggiori registi al mondo Nekrošius è ospite del Bellini con la versione scenica di un racconto di Kafka, metafora dell’artista e di una condizione dell’anima
Di Anita Curci
Di Anita Curci
“Non
ho creato nessun tipo di copione o drammatizzazione del testo. Ho
aperto il libro, trovato il racconto e iniziato le prove. La
creazione dello spettacolo è avvenuta dalla prima riga”. Eimuntas
Nekrošius, il regista lituano di fama internazionale, tra i più
grandi oggi esistenti, sarà a Napoli sul palcoscenico del Bellini
con Un
digiunatore
di Franz Kafka dal 19 al 21 aprile, e vi ritornerà a giugno per il
Napoli Teatro Festival Italia (NTFI) invitato dal direttore artistico
Ruggero Cappuccio per una collaborazione triennale.
Della
durata di 75 minuti, l’allestimento è in lingua lituana e
sopratitoli in italiano, con Viktorija
Kuodyté, Vygandas Vadeiša, Vaidas Vilius, Genadij Virkovskij.
La
produzione
è Meno Fortas Theatre e ha il sostegno del Consiglio di Cultura
Lituano.
Mister
Nekrošius, che cosa l’ha colpita del racconto di Kafka al punto da
volerlo rappresentare?
“Ho
trovato la storia perfetta, scritta magistralmente. E per tale
ragione dentro ci ho trovato di tutto, la trama, il soggetto, l'idea,
la concentrazione dei pensieri e il messaggio. Non ci sono tante
narrazioni in letteratura scritte in maniera così eccellente. Kafka,
invece, lo ha fatto. E in realtà non ci sono stati molti tentativi
di mettere in scena gli scritti di Kafka. Probabilmente i registi non
hanno prestato la giusta attenzione a tutti i suoi libri, ad
eccezione di quelli più popolari come Il
Processo,
Le
Metamorfosi.
Ma ci sono altri testi degni di attenzione per una messinscena”.
Qual
è la metafora che sta dietro la parabola del digiunatore? Chi è il
digiunatore? Chi può essere nel mondo di oggi?
“Credo
che il Digiunatore sia un'allegoria. Sono incline a pensare e credere
che Kafka parli di un artista. Si tratta della “fame” per
riuscire a capire e scoprire se stessi, la fame di attenzione del
pubblico. Tutto questo sacrificio per delle mani che applaudono... In
realtà oggi tutti noi vogliamo e cerchiamo il successo. Tutti
sognano di ammirare, stupire gli altri con la propria vita e le
proprie azioni. Questa è la base al di sopra della quale si pone
l’essenza dell’arte - se non ci fosse il pubblico, non ci
sarebbero gli artisti”.
Ci
sono ragioni autobiografiche che l’hanno spinta a scegliere questo
testo?
“Sì,
certo, ce ne sono alcune e le evoco in qualche passaggio. Ad esempio,
inserisco un frammento con un diploma e dei premi… Non c'è un tale
tema nel racconto di Kafka, l’ho inventato io. A volte, nelle
performance, risulta essere molto forte e pertinente il richiamo alle
ragioni che spingono ad una messa in scena, altre invece passa solo
silenziosamente, come impercettibile. Ogni spettacolo è come l’aria,
nessuno sa su quale angolo girerà. Dipende da tanti fattori. È la
vita, e questo è il teatro”.
Invece
della gabbia in cui Kafka rinchiude il digiunatore, lei ha preferito
le semplici pareti di una casa. Perché?
“Cambierebbe
qualcosa? Tutti siamo limitati in un qualche spazio determinato.
Anche la nostra fantasia, anche quella... se si desidera oltrepassare
i limiti, qualcosa di sbagliato accadrà: una malattia o anche
qualcosa di peggio. Ogni cosa nella nostra vita è più o meno
limitata. Abbiamo anche solo una limitata quantità di tempo. Tutte
le persone vivono come in cellule personali di vario genere. La
gabbia di Kafka è anche quella una metafora. Non è un luogo esterno
o illustrativo. Dov’è? Può essere nella testa, potrebbe essere
nel cuore... Senza non saremmo capaci di vivere, saremmo circondati
dal caos”.
Un
altro elemento del Digiunatore
è il mondo del circo: l’attrae? Lo evocherà nel suo allestimento?
“Sì,
sicuramente, ci sono dei richiami in questo spettacolo. Anche nella
parola "circo", dietro le lettere, c’è qualcosa che
viene dall'infanzia. Essa ci invita a un qualche tipo di festa, al
mondo della gioia e delle illusioni. Illusioni che il mondo è bello,
che il male sarà sconfitto dalla bontà, che il pagliaccio bianco
sarà sempre in grado di sconfiggere quello cattivo. E a una certa
età, invecchiando, si inizia a guardare tutto dall’altro lato.
C'era qualcosa di bello, di delicato, ma non saremo mai in grado di
riviverlo. Il circo, così come il carosello, è un po’ triste,
muove alla compassione, al genere delicato. Ecco perché persone di
età diversa lo amano. Come forma d'arte è ancora più interessante,
vero e sincero del teatro stesso”.
Lei
lavorerà tre anni per il NTFI con due laboratori e uno spettacolo.
Il primo sarà sul Don
Chisciotte.
L’allestimento dovrebbe essere La
scienza nuova
di Giovan Battista Vico. Conferma? O pensa di concentrarsi su altro?
“Collaborerò
sicuramente per il Festival. Per quanto riguarda il testo di Vico,
non vi è alcuna traduzione in Lituano e, purtroppo, per ora non lo
conosco bene. Percepisco, rispetto a quello che so, che si tratta di
un’opera davvero profonda e significativa”.
Ha
già qualche idea orientativa sulla trasposizione scenica?
“È
ancora un work in progress e non sono state prese decisioni
definitive”.
Lavorerà
con attori napoletani. Napoli ha una grande tradizione teatrale con
autori come Eduardo De Filippo, ed eccellenti attori. La conosce?
“Naturalmente
non conosco ancora l’intera ricchezza del patrimonio della città
di Napoli. Purtroppo, in passato, non ho avuto alcuna possibilità
per approfondire. Ma, per mia cultura generale, ho capito che Napoli
è una radice importante del grande albero del teatro italiano. Ho
lavorato con molti attori della vostra regione e mi hanno raccontato
tanto di un popolo dotato di uno spiccato senso artistico, con una
ampia gamma di sentimenti… Pur non essendo italiano, per me è
possibile distinguere se questo o quell’attore sia del Sud o del
Nord. Sarà stata di certo la natura ad aver trasmesso la continuità
delle tradizioni. Questo è il motivo per cui gli attori napoletani
sono diversi, speciali, usano sul palco segni artistici
inequivocabili attraverso una eterogenea tipologia di linguaggio.
Sono davvero eccezionali”.
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