“LA MOLIÈRE” - Drammaturgia e regia di Giuseppe Sollazzo - con Marieva Jaime Cortez

Al Teatro Nuovo di Napoli il 15 e 16 giugno per il Napoli Teatro Festival Italia

Servizio di Antonio Tedesco

Napoli - Quasi predestinata, Armande Béjart nasce in una famiglia di teatranti. E già la sua venuta al mondo è, in qualche modo, un “coup de théâtre”. La riconoscono come loro figlia gli anziani Joseph Béjart e Marie Hervé  (rispettivamente 57 e 48 anni, età che all’epoca, siamo intorno alla metà del’600, si consideravano già avanzate). Non si hanno notizie sulla località in cui la nascita è avvenuta. Fin da subito circolò voce che in realtà Armande fosse figlia della giovane (24 anni) Madeleine Béjart, ufficialmente sua sorella. Quest’ultima, a sua volta già madre, ha una relazione con Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière. Anch’essa attrice, i due mettono su una loro compagnia. Ci sarebbero tutti i presupposti, quindi, per supporre (come da più parti è stato fatto) che la piccola Armande sia in realtà la loro figlia.  La situazione si fa ancor più intricata quando ormai ventenne Armande sposerà Molière (che ne è pazzamente innamorato), avendone tre figli. E senza per questo rinunciare ad una lunga e brillante carriera d’attrice. Insomma, come si vede da questi pochi cenni, un intrigo da far impallidire i più spregiudicati sceneggiatori di telenovele o di soap opera. Ma qui parliamo di teatro e Giuseppe Sollazzo, in questo suo spettacolo dedicato proprio alla figura di Armande Béjart e intitolato La Molière, andato in scena il 15 e 16 giugno al Teatro Nuovo per il Napoli Teatro Festival, ha utilizzato questa contorta e storicamente molto incerta vicenda per realizzare una metafora scenica di grande leggerezza e notevole profondità ad un tempo. Se le fonti storiche sono inaffidabili e confuse ciò che si può affermare con una certa sicurezza è la grande modernità del personaggio di Armande. Il fascino che esercita proprio in virtù di queste misteriose origini. La sua completa dedizione al teatro che molto si riflette anche nel suo privato. Dove, ipotizza Sollazzo nella drammaturgia che ha sviluppato a partire dalle poche notizie certe disponibili e dalle molte illazioni diffuse, ha saputo sfruttare al meglio le sue doti artistiche anche per fronteggiare le esigenze e le difficoltà che la vita le ha presentato. Così questo “one woman show”, diventa non solo una riflessione sull’arte scenica, ma anche sul teatro come dimensione dell’essere che si distacca dal mondo e al tempo stesso lo contiene. Recitare è vivere, potremmo dire in sintesi, e ce ne dà una grande prova Marieva Jaime-Cortez che con ammirevole espressività e sicura presenza scenica, porge al pubblico le varie facce possibili della vicenda di Armande Béjart: la figlia tardiva di genitori ormai anziani, la spregiudicata ragazza che sposa Molière (forse ignara della diffusa maldicenza di cui sopra o forse no) e che non esita comunque a tradirlo quando gusto, interesse o necessità lo impongono. Fino alla giovane cresciuta in un convento di suore che si offre al futuro sposo come per ottemperare ad un sacrificio a cui non può sottrarsi.
Se c’è una verità non è importante saperla. Ciò che conta è che l’arte e la vita si stringono in un connubio indissolubile e che la prima smaschera la seconda. Gesto intollerabile, quest’ultimo che condannava all’epoca gli attori ad essere sepolti in terra sconsacrata. E costringe ancora oggi ad una difficile esistenza il teatro stesso. E Armande-Marieva (la vita e l’arte della prima, la perfetta interpretazione-identificazione della seconda) si rivela alla fine per quella che è la “sua” verità, emblema di questo teatro che più duramente si è scontrato con il mondo e la sua ipocrisia. Sintetizzato in una toccante chiusura-epitaffio dove insieme allo stesso Molière, in un simbolico cimitero dell’arte, vengono ricordati i grandi ribelli e innovatori del teatro, quali Artaud e Pina Baush. Santi, maledetti e martiri, dei quali Armande Bèjart, detta La Molère, si fa musa ideale e ancella.
La regia di Sollazzo pone fin da subito elementi stranianti rispetto al contesto storico della vicenda. Come se la teatrante fosse un’aliena che giunge da un altro mondo e da un altro tempo, la sua prima uscita è in tuta da astronauta. Come a dire che il Teatro è altrove, prima di calarsi poi nella storia e nel tempo e attraversarne le epoche. Così come i “provini” a cui si sottopone rimandano ai tentativi di una donna che, in vari sensi, nata e cresciuta fuori dagli schemi, cerca di trovare il suo spazio nella vita.  Il resto è storia, è maldicenza, è realtà, ma soprattutto è Teatro.
Il tutto espresso da una regia che plasma le luci (di Guido Levi), la musica e gli elementi scenici e coreografici, sulla materia artistica (corpo e voce) ricca e prolifica di Marieve Jamie-Cortez che, parafrasando Flaubert, può senz’altro dire “La Molière c’est moi”.
E il teatro e la vita, in definitiva, sono La Molière.



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