BATTLEFIELD - Brook: nel Mahabharata cadaveri come in Siria

Un nuovo allestimento, più essenziale, del regista inglese

di Anita Curci

"Ho pensato di riproporre questo lavoro, insieme a Marie­Hélène Estienne, perché sento la necessità di trasmettere qualcosa che sia collegato al nostro presente”. Peter Brook torna a Napoli, e al Teatro Bellini dal 20 al 25 febbraio, con Battlefield, tratto dall’imponente Mahābhārata indiano e dal testo teatrale di JeanClaude Carrière. Con Karen Aldridge, Edwin Lee Gibson, Jared McNeill, Larry Yando, sulle musiche di Toshi Tsuchitori. Da una produzione C.I.C.T. – Théâtre des Bouffes du Nord. “Il poema – spiega il regista britannico – descrive la guerra all’interno di una famiglia, dove da una parte sono schierati cinque fratelli, i Pāndava, prole del defunto re Pāndu, e dall’altra i Kaurava, i 100 figli del re cieco Dhrtarāstra, fratello di Pāndu”. Epopea antichissima, tradizionalmente attribuita a Vyāsa, che la trascrisse in sanscrito e la spalmò in 95 mila versi, tanto da rappresentare ancora oggi l’opera più ampia di tutta la produzione letteraria mondiale. Il Mahābhārata è il testo religioso di maggiore rilievo in India, portatore di messaggi spirituali sull’emancipazione del sé e sulla trasformazione delle azioni dell’uomo che da portatore di sofferenza deve riscoprire il valore del dharma. In questa lotta tra il bene e il male a vincere sono i Pāndava, dopo anni di lotte, rancori, massacri. “La narrazione – continua Brook – suggerisce dieci milioni di cadaveri, un numero sbalorditivo per quei tempi. Una descrizione che potrebbe essere accostata alle vicende di Hiroshima o a quelle più recenti della Siria”. Di Battlefield si ricorda la maestosa messinscena del 1985, durata nove ore con un cast multietnico, che il regista portò al Festival di Avignone, ambientandola in una cava, e poi trasmutandola in una mini serie televisiva e cinematografica. Lo spettacolo, in lingua inglese con sopratitoli in italiano, oggi è una pièce essenziale e intensa, come chiarisce egli stesso: “Abbiamo voluto parlare di ciò che accade alla fine di un conflitto. Nel Mahabhārata si parla di una grande guerra di sterminio, che fa a pezzi la famiglia Bhārata. Milioni di cadaveri giacciono ancora a terra. Come potrà il vecchio re Dhrtarāstra, che ha perduto tutti i figli e gli amici, riuscire a dimenticare? E il maggiore dei Pāndava – Yudisthira – è costretto a diventare re. Per lui la vittoria ha l’amaro sapore della sconfitta”. Yudisthira e Dhrtarāstra vengono sopraffatti da angoscia e rimorso per le loro azioni. Da qui il doloroso scontro interiore: colui che ha vinto pensa che la vittoria non sia altro che una sconfitta, chi ha perso comprende che la guerra andava evitata. Una storia che appartiene al passato ma mette di fronte ai disastri odierni. “Nel testo i personaggi hanno, quantomeno, la forza di porsi delle domande. Quando si leggono le notizie di attualità si rimane arrabbiati, disgustati, sconvolti. Ma in teatro si può vivere tutto ciò e si può continuare a rimanere fiduciosi verso la vita”.


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