LE SERVE - Bonaiuto: “Con questa pièce Genet intona un inno al teatro”

di Viola De Vivo

Una tragedia moderna per un tema antichissimo: il rapporto servo/padrone. La stagione in abbonamento del Teatro Nuovo di Napoli si apre con Le serve, capolavoro di Jean Genet, in scena dal 25 al 29 ottobre e interpretato da Anna Bonaiuto (Solange), Manuela Mandracchia (Claire) e Vanessa Gravina (Madame), con la regia di Giovanni Anfuso (una coproduzione Teatro e società, Teatro Stabile Biondo di Palermo e Teatro Stabile di Catania). Scritto nel secondo dopoguerra e ispirato a un fatto di cronaca, è la storia di due serve, Claire e Solange, che vivono un rapporto di amore-odio con Madame, la loro padrona, e tutti i giorni, quando lei esce di casa, inscenano un rituale in cui vestono i suoi abiti, la imitano e alla fine la uccidono. Il gioco inquietante va avanti finché l’amante di Madame, da loro denunciato con lettere anonime, viene rilasciato per mancanza di prove. Terrorizzate all’idea che la verità possa venire a galla, le due cercano di avvelenare la padrona. Ma il tentativo fallisce e sarà, invece, Claire a bere il veleno proprio durante quel rituale in cui le identità si confondono e, con esse, bene e male, vittima e carnefice.
Anna Bonaiuto, che peso ha interpretare un’opera oggetto di studio da parte di psicanalisti e filosofi (Sartre, solo per citare il più celebre)?
“L’importante è prendere un testo sempre come un fatto puramente teatrale. Se mettessimo in evidenza le parti filosofiche, rischieremmo di essere astratti e incomprensibili. La lettura di una pièce è qualcosa che riguarda il pubblico, quindi non vedrete uno spettacolo in cui si spiega. “Le serve” si spiega da sola”.
Il sentimento delle due nei confronti della padrona possiamo definirlo costantemente in bilico tra devozione e invidia?
“La molla della lotta di classe è sicuramente l’invidia, ma Le serve è anche la metafora di quella cosa spaventosa per cui i padroni esistono in quanto ci sono i servi, e viceversa. Né gli uni né gli altri hanno una identità, ma esistono in quanto c’è questo rapporto”.
Madame che tipo di padrona è?

“Il fatto che si chiami solo Signora, senza un cognome, la rende metafora di quelli che hanno avuto tutto dalla vita e, quindi, possono anche permettersi di essere buoni. Non è assolutamente una padrona cattiva: se lo fosse, sarebbe tutto più facile. La cosa che Sartre odia di questa signora è proprio la bontà”.
Anche Solange e Claire sono delle metafore?
“Genet parte da una storia vera, quella delle sorelle Papin, che però erano ignoranti, analfabete; Le serve invece è caratterizzato da una scrittura alta: Solange e Claire parlano bene, e questa è un’indicazione di non naturalismo o neorealismo, come nel cinema. Sono delle metafore, ma tutto quello che avviene è reale, come reale è il loro dolore. Dicono: “il lerciume in cui viviamo noi non ci permette di amare”. L’assoluta miseria spirituale di prigioniere dentro una casa le rende disperate, cattive, feroci, ma alla fine sono due bambine fragili”.
Per sfuggire dalla frustrazione del loro status, le sorelle si rifugiano nell’immaginazione. Qual è la forza del teatro nel teatro in questa pièce?
“Queste due disgraziate muoiono se non recitano perché, non avendo identità, cercano la vita nella rappresentazione. Io questo lo leggo come un inno al teatro, un desiderio di cercarvi la salvezza”.
Il tragico finale dimostra che per Genet gli ultimi non trovano riscatto. Lo spettacolo lascia nello spettatore il sapore di una condizione senza scampo?
“Genet non dà speranze. Spesso si equivoca sulla parola “catarsi”. Per lo spettatore la catarsi non è andare a casa tutto contento, ma essere entrato in empatia con il destino degli uomini. Magari nessuno seduto in platea sarà nella condizione di questi personaggi, o magari sì, perché la servitù è anche mentale, perché i poveri veri esistono ancora, e così i disperati, e così i ricchi privilegiati. Il teatro, quello buono, parla del destino dell’uomo, e più ne parla, più lo spettatore vive il destino degli altri come il proprio”.




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