Michele Del Grosso, quel “mangiafuoco buono” che del teatro amava l’instabilità

di Roberto D'Avascio


Ho conosciuto Michele Del Grosso (in foto) grazie al teatro di Annibale Ruccello. Ho visto nell’ormai lontano febbraio 2009 la messa in scena di una bellissima versione di Ferdinando, realizzata dalla compagnia di Salvatore Mattiello al Teatro Instabile di Vico Purgatorio ad Arco. Rimasi molto colpito non solo dallo spettacolo, ma anche dall’idea che il ventre profondo di Napoli – Il Tin è ubicato sotto Palazzo Spinelli – ospitasse una relativamente giovane, ma vivacissima compagine teatrale dell’estrema periferia napoletana, San Giovanni a Teduccio, per ripresentare i fantasmi scenici di Ruccello. Ma a me, giovane dottore di ricerca in Storia del Teatro dell’Orientale, colpì soprattutto l’idea teatrale sottesa a quel luogo e a quell’atmosfera: un’angusta arena ellittica con basse gradinate attorno, delimitata da otto archi e pareti ad opus reticulatum. L’artefice era Michele De Grosso, un “mangiafuoco buono”, come è stato definito in questi giorni di lutto da Alessandro Chetta, che ha realizzato un paio d’anni fa un documentario sulla sua figura storica, intitolandolo appunto “Instabile”. Ho rivisto Michele qualche giorno dopo per prospettargli una possibile ricerca sulla sua ricca storia teatrale a Napoli. Arrivo al Tin, sto per entrare, ma mi fermo sull’uscio osservando l’interno: buio, al centro una figura di spalle – robusta e dalla testa leonina, con cappello, cappotto elegante e sciarpa attorno al collo – illuminata dalla debole luce di un faretto che ne esalta ancora di più la presenza. È immobile, io aspetto in silenzio. Si volta finalmente, mi guarda ammiccante e comincia a parlarmi in francese. Non ho capito una parola di quel lungo e ininterrotto discorso di cinque minuti in una lingua che non conoscevo, ma ho cominciato a intuire il suo teatro. Michele mi stava spiegando chi era usando il linguaggio della scena, con una piccola performance improvvisata. Ho compreso, in quel preambolo scenico, alcune caratteristiche importanti della sua storia teatrale, che contiene all’interno la visione estetica, ma anche, e soprattutto, la dimensione profondamente umana. Il suo teatro si potrebbe riassumere in tre parole­chiave: ospitalità, incantesimo, internazionalismo. La sua lunga esperienza di ricerca e di promozione del teatro dagli anni Sessanta in poi – è stato regista, attore, direttore di compagnia, gestore di sala – è attraversata da questi concetti. Quella sera mi aveva di fatto raccontato artaudianamente l’autonomia del linguaggio del teatro, la consapevolezza che il teatro deve saper accogliere lo spettatore per sconvolgerlo, e la tecnica magica e incantatoria che l’attore e la scena devono possedere per “possedere” il pubblico. Seguendo questo filo rosso la sua morte, avvenuta il 9 gennaio scorso, ci lascia un blob infinito di ricordi: la sua versione di Ubu Roi, la presenza del Living Theatre e dell’Open Theatre a Napoli, i cantautori, il giovane Troisi che recita Majakovskij, la tournée del Teatro Tenda, lo scavo di Palazzo Spinelli, Mater Camorra, il Pulcinella di Lello Esposito e tanto altro. In uno degli ultimi incontri con Michele, qualche tempo fa, mi disse voleva realizzare una rassegna di cinema all’aperto nel cuore del Centro Storico di Napoli, usando come schermo le grandi lenzuola bianche stese dai balconi dalla gente del quartiere. Se ci fosse riuscito sarebbe stata un’altra mirabile messa in scena.


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