Taccuino d'Autore - Nello Mascia


di Nello Mascia


Mio padre era un poeta. Un latinista e un grecista, amante di cose belle, di pittura, di letteratura, di teatro. All’età di tre anni (sapevo già leggere e scrivere perfettamente) già recitavo a memoria alcune poesie di Pascoli, di Gozzano, di Carducci. Ma il mio cavallo di battaglia era Il prode Anselmo di Giovanni Visconti Venosta. Avevo già il mio piccolo repertorio. Che sciorinavo nel corso della mia quotidiana tournée quando, con mia madre nel fare la spesa, si sostava ora dal macellaio (Oh Valentino vestito di nuovo…), ora dal fruttivendolo (Signorina Felicita, a quest’ora, scende la sera…), ora dal giornalaio (Pollicino morta mamma, non sa più di che mangiare…). E avevo già il mio pubblico, che era quello delle massaie del mercato. Ero, insomma, un enfant prodige di quartiere. A scuola, ovviamente, ero una celebrità. Le maestre letteralmente mi contendevano per avermi nelle loro classi a recitare poesie, dinanzi a una platea di compagni di scuola entusiasti – se non altro – di evitare così un’interrogazione. All’età di sette anni, idolo ormai indiscusso del paese (vivevamo a Gragnano, nell’entroterra campano, luogo famoso per la pasta e il buon vino), il parroco mi aveva dato l’incarico di imparare una lunga, orrenda poesiola scritta da lui, da dire sul palco della piazza principale in occasione della Festa della Madonna del Carmine. La piazza era gremita. Tutta la cittadinanza era presente. Salgo sul palco. Il parroco mi presenta alla folla plaudente. Una marea immensa. Io avanzo al centro del palcoscenico. Sono davanti al microfono. Si fa improvvisamente silenzio. Tutti pendono dalle mie labbra. Io mi guardo intorno. Il parroco dalle quinte mi incita a cominciare. Ed io… Scappo via. Fuggo, scappo a più non posso, come un forsennato. Giù per le scale del palco. Via! Giù, lungo la discesa. Col fiato in gola. Via! Dopo quell’episodio la mia vita cambiò. Mai più recite improvvisate. Mai più poesie. Più nulla.

A 13 anni mio padre volle portarmi a Napoli, al Mercadante. Si dava una commedia di cui non ricordo il nome. Quello che ricordo è che gli spettatori in sala erano cinque. Compresi io e mio padre. Ci sistemammo in poltrona. Si fece buio. E dal sipario chiuso uscì fuori un vecchietto. Molto simpatico e dal fare molto autorevole. Il quale disse più o meno così: “Questa sera, secondo una consuetudine teatrale, essendo gli spettatori in sala inferiori per numero agli attori in palcoscenico, potremmo non fare lo spettacolo, e potremmo restituirvi il costo del biglietto. Ma non lo faremo. Noi questa sera faremo un’altra cosa. Faremo per voi il più bello spettacolo della nostra vita. Quel vecchietto era Sergio Tofano. Ecco. Se qualcuno mi chiedesse quando in me nacque la scintilla, l’incandescenza per questa missione sacerdotale che è il mestiere dell’attore, credo che risponderei così: Tutto nacque in quella magica, mistica, memorabile sera al Mercadante.



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