USCITA D'EMERGENZA - A quasi 40 anni dalla prima torna la pièce che rivelò il talento di Santanelli

Rigillo e Di Palma la classe morta del terremoto

di Gianmarco Cesario 

Nel 1978 il quarantenne sceneggiatore RAI Manlio Santanelli esordì a teatro con Uscita d’emergenza, un testo che lo proiettò subito nell’Olimpo degli autori teatrali più acclamati in Italia e all’estero. “Entravo nel teatro attraverso la porta principale, il testo rappresentò un momento di grande visionarietà, che poi è stata confermata dal sisma dell’80 e da tutti questi fenomeni che hanno contribuito alla fragilità del mondo in cui viviamo oggi”, dichiara Santanelli. Erano interpreti della prima edizione, in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli nel 1980, Nello Mascia e Bruno Cirino, che si occupò anche della regia. Alla morte di Cirino prese il suo posto Sergio Fantoni, ma in questi quaranta anni sono tanti gli attori di mezzo mondo che hanno rappresentato l’incontro-scontro tra Cirillo (un suggeritore teatrale) e Pacebbene (sacrestano parrocchiale), costretti a una coabitazione postsismica che li porterà a svelare se stessi con quel linguaggio surreale che nel tempo abbiamo imparato a riconoscere come tratto distintivo del drammaturgo. Ora, anticipando le celebrazioni per i quaranta anni del testo e gli ottanta dell’autore, dal 18 ottobre al 5 novembre il Teatro Nazionale di Napoli inaugurerà la stagione del San Ferdinando con una sua nuova produzione di Uscita d’emergenza, scegliendo come interpreti Mariano Rigillo e Claudio Di Palma, autore anche della regia. Di Palma, che oggi si rapporta con questa storia di solitudini, alla luce di quanto accaduto negli ultimi quarant’anni, afferma: “Al di là del casuale profetismo col quale il testo di Santanelli sembrò preannunciare il terribile terremoto dell’80, mi pare che le traversie e le precarietà intime e devastanti di Cirillo e Pacebbene siano ancora da considerare l’emblema di quello smembramento delle identità che gli anni successivi all’80 avrebbero drammaticamente confermato. Bradisismi e terremoti insistiti hanno progressivamente, ma radicalmente, modificato il terreno dei rapporti umani. Se nell’isolamento di Cirllo e Pacebbene era, al tempo, riscontrabile il sentore di un imminente e incombente crollo, oggi il crollo c’è già stato e noi, nel nuovo allestimento, lo esemplificheremo con la distruzione della statua del Nilo, schiacciata da una enorme lastra di marmo. Il crollo probabilmente ha già sepolto entrambi e, con essi, la città. Le loro strumentali vaniloquenze restano come segni di un’emergenza passata ed un’uscita fallita”. In scena, con Di Palma, c’è Rigillo, a testimonianza di un incontro tra diverse generazioni d’attori che, però, in qualche modo si assomigliano. “Posso dire di essere stato probabilmente incoraggiato da una certa rassomiglianza fisica con Mariano”, spiega Di Palma. “Siamo di epoche diverse, abbiamo stili diversi, ma anche affinità che conseguono, con discrezione, il segno drammaturgico”. In che modo il pubblico contemporaneo potrà interpretare questo testo? “Sono curioso di verificare se qualche spettatore condividerà o meno un mio doppio sospetto”, commenta il regista e attore napoletano. “Il relativismo e l’inaffidabilità delle confessioni, delle provocazioni e delle reciproche illazioni tra Cirillo e Pacebbene alla fine degli anni Settanta erano interpretabili certamente come segni di una erosione dell’autenticità dei rapporti umani, ma erano anche leggibili come il rigurgito affannato di una vita ancora possibile (un’uscita dall’emergenza, appunto). Oggi quelle stesse improbabili confessioni, quelle continue e improvabili provocazioni e illazioni mi sembra (ecco il primo sospetto) abbiano trovato posto e forma in un’altra casa: la grande casa sociale. Così, nell’apparente velocità con le quali si producono e riproducono, penso che quelle parole adesso siano definitivamente inutili e spente. Ecco, il secondo sospetto è che per questa ragione Cirillo e Pacebbene oggi siano già morti”.


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