TACCUINO D'AUTORE di Alessandro Preziosi

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei… mi giro su me stesso, cambio direzione. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei: questo il perimetro che ho a disposizione per muovere il mio corpo su Un palco. cerco di registrarlo, cerco di memorizzarlo, cerco di dare ad ogni passo un suo peso, una sua forma, appunto, Una sua memoria!

Ero in una biblioteca triestina, accanto a me uno studente di Letteratura leggeva un libro di Peter Brook dal titolo Lo spazio vuoto. Aspettai la fine della giornata, chiesi di fotocopiarlo e lo lessi tutta la notte. Così mi sono imbattuto in un mondo nel quale si descriveva in maniera chiara, teatralmente semplice, il rapporto tra l’uomo e lo spazio, tra l’uomo, l’attore e le pareti che lo delimitano solo apparentemente… Difatti, la deduzione che ne trassi era che la via di fuga – l’occhio del pubblico - fosse come il ventre di una madre dalla quale poter prendere luce, significato, vita! Una scena si può definire uno spazio vuoto? Si può concretamente considerare una sedia, al centro di un palco, un elemento narrativo dal punto di vista teatrale? La risposta l’ho avuta vedendo proprio uno spettacolo di Brook, Il flauto magico, e da quel momento ho cominciato a realizzare spettacoli che portassero alla luce, in maniera tangibile, l’idea di uno spazio da riempire esclusivamente attraverso gli attori. Così ho fatto con il Dongiovanni di Molière e da ultimo lo spettacolo su Vincent Van Gogh dal titolo L’odore assordante del bianco. Sono arrivato alla conclusione che, al di là di supposte e antiche verità, uno spazio, delimitato già di per sé, è un luogo teatrale… sarà responsabilità e merito dell’attore dare vita, forma, profondità a quel luogo. Quindi, ciò che sembra apparentemente una condizione delicata, impegnativa, di riempire uno spazio privo di qualunque riferimento, diventa uno strumento di immedesimazione e di comunicazione del testo più alto di qualunque altra struttura di supporto scenografica. Questo, chiaramente, obbliga l’attore a rendere racconto il testo, come qualcosa che viene creato in quel momento. Le sue emozioni, i suoi movimenti, il suo pensiero, saranno come il primo battito di un cuore, saranno come la prima meraviglia che attraversa gli occhi, sarà tutto una scoperta... Allora, lo spettatore comprenderà la storia, e l’immaginazione comincerà magicamente a disporre intorno all’attore una “scenografia”. La sua attenzione sarà mossa da improvvisa sollecitazione dei sensi, quasi da un sussulto di smarrimento. Ecco, allora, cosa uno spazio vuoto riesce a creare; credo, fondamentalmente, un incontro di natura strettamente umano. Ci muoviamo sul piano dell’incoscienza, della responsabilità, che l’attore, in teatro, diretto dal regista, è obbligato a incarnare nel presupposto della finzione. Ma l’attore è anche obbligato a scrostare quella finzione per far largo alla verità. È qui che, con poetica prepotenza, l’attenzione del pubblico diventa la punta di un compasso che delimita una circonferenza, che trasforma lo spazio in scena... Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, i miei passi raccontano lo spazio… il respiro diventa sempre più profondo, scompare il dualismo dell’attore. Sono compatto con mente, cuore, corpo… Si apre il sipario, lo spettacolo ha inizio.


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