"La caduta" di Camus al Napoli Teatro Festival con Renato Carpentieri


Di Maddalena Porcelli

Eccellente prestazione attoriale quella di Renato Carpentieri nelle vesti di Jean Baptiste Clamence,  protagonista de “La caduta”, il romanzo scritto nel 1956 da Albert Camus. Lo spettacolo,  che ha debuttato il 23 e il 24 giugno, rispettivamente nei giardini de l’Institut Français de Naples, Le Grenoble, e alla Galleria Toledo nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia e prodotto dall’Associazione culturale “Il Punto in Movimento”, costituisce la prima parte del progetto “Una serata con Albert Camus” e prevede una seconda rappresentazione, “Il Malinteso”, dello stesso autore. L’opera è concepita nella forma di un monologo atipico, in quanto il protagonista dialoga a una voce, mentre l’interlocutore, il pubblico spettatore nel nostro caso, è del tutto ignaro, fino alla fine, che è di lui che si sta parlando. Se nel testo egli si percepisce attraverso le domande senza risposta del protagonista, nella riduzione teatrale concepita dall’attore, le domande saranno rivolte insistentemente a persone reali alle quali l’attore si avvicinerà, fissandole per lunghi istanti e scrutandone le reazioni. Jean Baptiste Clamence è superbamente incarnato dall’attore che sulla scena, accompagnato dal bravo violoncellista Federico Odling, ne ricostruisce i tratti più peculiari, attraverso i gesti, le espressioni, le citazioni, le pause di silenzio, il contegno tragico, con una tale fedeltà al testo che il protagonista  sembra materializzarsi e uscire dalle pagine stesse del libro, un po’ come il genio della lampada sfregata da Aladino. La sua storia è quella di un avvocato parigino brillante e sapiente, pago della sua vita e della sua “indole caritatevole”, sempre pronto a prodigarsi per il bene degli altri, finché un giorno, nel percepire una risata di cui non riconosce la provenienza, circostanza apparentemente casuale, sente innescarsi in quelle solide certezze un tarlo che lo spinge a riconsiderare la sua vita, a interrogarsi sul senso della sua esistenza  e a chiedersi quanto essa sia stata vera fino a quel momento. Deciderà quindi, avendo acquisito coscienza della finzione e della maschera che lo ha imprigionato, di lasciare la vecchia professione e trasferirsi nella periferia di Amsterdam, dove racconterà al suo interlocutore, incontrato in un bar, il Mexico City, come e perché ha deciso di cambiare identità, per diventare un giudice penitente. Qual era il valore della sua benevolenza? Chiederà. Erano davvero puri, incondizionati, spontanei i suoi sentimenti? O piuttosto era stato il suo desiderio di dominio, di sentirsi al di sopra, migliore, di sopraffare? Più che amore per gli altri, non era forse amore per se stesso, nel vedersi elogiare per le sue azioni? Una maschera di apparenze, insomma, che una volta dismessa gl’impone l’assunzione di una colpa,  facendogli decidere di diventare un giudice penitente, perché solo attraverso la condanna di sé, egli dice, avrebbe potuto ottenere quella di tutti gli altri, nella convinzione che tutti siano sempre pronti a giudicare ma mai a giudicarsi e che pertanto abbiano l’assurda pretesa di ritenersi innocenti mentre sono inevitabilmente colpevoli. L’intento è di mettere a nudo le peculiarità dell’uomo, la cui esistenza si basa fondamentalmente sulla menzogna: la menzogna dell’apparire, per la quale ogni buona azione deriverebbe dall’esigenza di essere ammirati. Una disanima spietata, se si vuole, ma che ha ragion d’essere in virtù di quell’aspirazione alla libertà sempre avvertita, quantunque assopita, nonostante essa comporti una caduta, ossia il crollo di ogni certezza. La libertà, come suggerisce Camus, fa paura perché mina le false certezze sulle quali si è costruito l’impianto regolativo del potere, isolandoci dal contesto sociale rassicurante e gettandoci in un deserto di solitudine, ma parimenti siamo in balìa di quello stesso disagio quando ci scopriamo estranei a quelle regole imposte dal dominio più che dalla libertà. Come non sentire, attraverso le parole di Renato Carpentieri, quelle analogie ch’egli suggerisce con la nostra epoca, che ancor più d’allora è soggiogata dall’indifferenza  e dalla spettacolarizzazione risolta nei gesti, nelle abitudini, negli stili di consumo così uniformi e omologati, indotti da una logica falsa e malata? Come non sentire quell’appello alla rivolta, che deriverebbe da una presa di coscienza di ciò che siamo e della trappola nella quale abitiamo, nel nome di una rinnovata autenticità, che è innanzitutto disobbedienza intesa come atto sovversivo? Come non rievocare le parole di Camus quando dice che il risveglio della coscienza induce a negare l’esistente e mentre lo nega afferma qualcosa di altro e sentire che nelle parole di Jean Baptiste Clamence, per contrasto, c’è un appello al riconoscimento di un destino comune che unisce gli uomini nella solidarietà e che sfugge al mondo della potenza, accomunandoli nel segno della dignità e della bellezza?   


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