Sarà l'ironia a salvarci

Le riflessioni semiserie di un drammaturgo su virus e dintorni. La lezione di Artaud



di Enzo Moscato




Difficile, di questi tempi, dire come uno “si sente” e “cosa” sente, a proposito della cosmica situazione di ansia, paura, panico, paranoia, lutto e (freudiana?) malinconia, che ghermisce cuore e mente di ciascuno di noi e che viene causata dall’attuale e tremenda presenza dell’agente patologico e, a quanto pare, mortalissimo, chiamato (regalmente, ci avete fatto caso?) “corona-virus”. Io, per esempio, e credo come tantissimi altri in mezzo a noi - non dico del mondo intero, che, è ovvio, non ho il piacere di conoscere, ma, almeno, di Napoli e circondario - non mi “sento” manco più!

Corpo e mente mi sembrano, da quando è cominciato ʼsto fatto dell’epidemia, poi cangiatosi in pandemia (oh, Maronna bella mia!), che si siano volatilizzati, evaporizzati, in un loffio stato chimico-gassoso e, perciò, sospeso nell’aria, nel vuoto, e che, della mia (ex) natura umana o umanoide non mi sia rimasto nulla più, tranne lo stupore catatonico-progressivo e il progressivo starmene disteso, cataletticamente, sul letto, già predisponendomi così a quando, probabilmente, pure a me, i monatti di ritorno, perché già presenti nei “Promessi e poi Sposi” di manzoniana memoria, mi verranno, brutalmente a prendere e, dal letto mio, mi trasporteranno al relativo lazzaretto (se ci sono ancora barlumi di salvezza/guarigione), oppur di filato al cimitero, senza nessuno dietro il carro de’ muorte, che mi accompagni, per affetto, per pietà, dovere, fino a là, fino all’ingresso di Poggioreale, se si piglia il lato sud ovvero quello della Doganella, se si va per quello nord.

“C’avimm’a fa’? - diceva sempre, a proposito, la napoletanissima anima di mia mamma - ʼe ʼna manera o ʼe ʼn’ata s’ha da muri!”. Saggezza antica, plebea e anche introvabile, oramai, al giorno d’oggi, come potete constatare. Parliamoci chiaro: sto scherzando, sdrammatizzando, non sono un idiota, so benissimo che di mezzo c’è la sacra vita, che stiamo rischiando di brutto e che non è proprio il caso che faccia anch’io (il serissimo, “quasi austero” - almeno così mi vede qualcuno, “biàto a isso” - drammaturgo che conoscete), il buffone ridanciano di turno, uno di quelli che si affacciano, mettiamo, dagli schermi delle tv, locali e nazionali, sciorinando scemenze sedicenti divertenti, perché “tanto, vista la situazione tragica, è meglio ca nun ce penzamme”. No, no. Io ci penso. Io ci penso, ci rifletto, eccome!, su ciò che sta accadendo. Ci penso e ci rifletto seriamente, e, seriamente non dico che ho paura o che ho coraggio; non ho nessuno dei due sentimenti citati, se è per questo. Ve l’ho detto: mo non mi “sento” e “non sento” proprio nulla, né me stesso né le emozioni a me stesso collegate, però, però, però…

ASPETTO, ASPETTO, e penso che se, ASPETTANDO ASPETTANDO, per fortuna o per caso, non morirò pure io (come già, e me ne dispiace tantissimo, sinceramente, sta succedendo a moltissime persone, pure tanto migliori e tanto più meritevoli di me, di rimanere vivi, su questo problematico quanto enigmatico pianeta,

detto Terra), ALLORA sarà giunto il vero momento di ragionare (e trarre debite conseguenze e anche debiti cambiamenti di condotta: etica, civile, sociale, emozionale…) su ciò che sta, terribilmente, ahimè! nel MONDO e, pertanto, anche in NAPOLI, accadendo, verificandosi.

Chi conosce anche solo un po’ del mio Teatro, sa che io, sia pure sotto forme ambivalenti - voglio dire, tragi-comiche - ho sempre parlato “di” e portato “sulla” scena (specialmente negli anni 90 e decennio successivo) questo tipo di catastrofi, di avvenimenti eccezionali, simili a quello che stiamo purtroppo vivendo adesso, nel mondo e nella nostra bella e cara città: uno per tutti, il ciclo di spettacoli dedicati al “pazzo” Antonin Artaud e ad altri scrittori “cataclismatici” del teatro, della filosofia, della letteratura europei: da Lingua, Carne, Soffio a Magnificenza del Terrore, passando per il testo, invero e involontariamente, “profetico” di ciò che sta avvenendo adesso, da me intitolato Epidemiantes, ancora inedito per mia espressa volontà, sia per la scena, sia per l’editoria, io mi sono sempre occupato e preoccupato, sia pure senza nevrosi o disturbi del carattere, del nostro non certo roseo e degno di ottimismo, futuro umano.

Non me ne vanto. È qualcosa che “sentivo”, anche se inspiegabilmente per me, di fare e coerentemente l’ho fatto. Erano “performances - finzioni”, quelle mie, che, attraverso una mise en éspace di eventi, per fortuna ancora immaginari, invitavano, con la rappresentazione, talvolta tragica, talvolta esilarante, talvolta tutt’e due i suddetti aggettivi assieme, con la Rappresentazione del Male o del Negativo tout-court, A UNA POSSIBILE CATARSI - PURIFICAZIONE - TRASFORMAZIONE, PSICHICA ED EMOTIVA DELLO SPETTATORE, e, quindi, in ultimo, passando dall’unità alla molteplicità, ANCHE DEGLI UOMINI TUTTI, scusatemi se è poco, ma è su questo poco, assolutamente e necessariamente megalomane e umile, grandioso e poveraccio assieme, che si regge e si giustifica una cosiddetta vocazione di artista di Teatro. Perché, poi, voi lo sapete, a questo serve (“servirebbe”, ahimè! se non stessero facendolo morire, anche lui, anche il Teatro, di “corona-virus-burocratico”) l’insieme inscindibile di scena, palco, luci, costumi, attori, attrici, registi, eccetera, eccetera…

A questo serve (servirebbe?) tutta la sua, la loro, “Magnifica Illusione”, offerta ai pubblici: ad anticipare, conoscere e quindi poi anche a neutralizzare/annullare, cangiandolo, così, in Bene e in Positivo, quanto di peggio o, addirittura, di impensabilmente crudele e devastante la nostra meschina e terrena esistenza può farci, senza misericordia, patire ed esperire. E perché, sennò, sono ancora, giustamente famosi, al giorno d’oggi, gente come Shakespeare, Boccaccio, Defoe, per non dire gli ancora più antichi descrittori/sublimatori, attraverso l’arte, delle infinite crisi patologiche/infettive dell’Umanità, tipo Sofocle, Euripide, Senofonte, e via di questo passo citando?

Di conseguenza, che ho voluto dire? Che ho detto, fino a mo? Ho detto, in sintesi: auguriamoci che un qualche risultato o effetto “positivo” lo porti questa estrema ed esiziale esperienza fatta col “c.v.19”. Nun ’o voglio manco annummena’ per intero ʼo nomme ʼe ʼstu frato d’’o c… maleaugurante! Tanto, voi capite lo stesso di chi stiamo parlando.

Auguriamoci che, passato ʼsto momento, perché passerà, passerà pur’isso, state certi, potremo di nuovo uscir liberamente dalle case nelle strade, per il piacere sommo di stare tutti assieme e di far serenamente e proficuamente di nuovo “comunità”. E, soprattutto, come avrebbe raccomandato anche la grande Luisa Conte: venite, venite, venite a Teatro! Venite ʼo Thèatron, come dicevano gli antichi greci! Venite, venite, che ce facite dint’ ’a casa?! Mo, forse, vi parrà paradossale o ʼnu male consiglio, dato con perfidia e con “cazzimma certosina”, quest’invito che facc’io ad andare a Teatro, quando tutti sanno che i Teatri, mo, li hanno “inzerrati” e chi sa quando apriranno e seppur riapriranno e come, soprattutto, riapriranno!

Ma, vabbè, che c’entra, io parlo, così, “per via virtuale”! Mica il virtuale si può fare solo su Internèt! Però è vero, o almeno io ci credo ciecamente che, passato magari questo tempo-sfiga d’ogni cosa, l’ironia “dalla” e pur “della” o “sulla” catastrofe è l’unica che ci può salvare l’anima e, con l’anima, il resto. E, poi, almeno per me, e spero ardentemente non solo per me, c’è sempre il Teatro. Non necessariamente fatto, recitato, ma anche solo, semplicemente pensato, immaginato, supposto: là, sultanto là, dint’ ’o Triato, troveremo gli anticorpi necessari a rimanere immuni, saldamente, da ʼsta brutta e sconcicata “tarantella” che, almeno per il momento, siamo tutti coscritti/costretti, malamente, a ballicchiare! S’intende: il teatro, se il teatro ce la farà a non morire, con tutti ʼsti tirapiedi attorno al suo letto ovver misero giaciglio di dolori! E che marina!

Detto questo, signori cari, quanto volete scommettere che, letto quest’articolo che gentilmente m’hanno chiesto di scrivere, qualche vecchia “guardia regia”, di fascistica memoria, o qualche spione appassionato di spiate in quanto tali, a danno del prossimo innocente, che ci stanno e ci staranno sempre in mezzo a noi perché proprio non farsi i cacchi propri è ʼna passione mistica più mistica di quella che teneva nel suo mistico cuore la misticissima santa Teresa d’Avila o anche l’altrettanto misticissima Ildegarda di Bingen, mi farà/mi faranno apposita denuncia per istigazione al suicidio, singolo e collettivo, invitando a uscir per strada e così ad auto- infettarsi di tremendo “corona-cacchio”, gli spaventati nonché anche “inzallanuti”, disorientati, poveri cristiani, che Dio lo sa che pazienza tengono già a stare chiusi come carcerati e privi ʼe “grazia”, notte e giorno, dentro le case, vuoi che siano ricche, vuoi che si “puzzano” di atavica indigenza ovvero fame?

Embè? Embè? Chi se ne fotte? Sarò pure uno sporco “qualunquista” o uno squallido “untore” delle pesti e delle lebbre circumnaviganti “urbi et orbi” i tempi trapassati, ma quello che è detto è detto, belli miei! E chi si tira indietro?! Chi ritratta? Chi abiura? Mica mi piacciono gli “autodafè” dell’Inquisizione a me?

Cià! Uhè! Cià! Cià! Cià! Cià! Capito? 

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