Roberto Andò, direttore dello Stabile di Napoli,
si interroga sul futuro di un'arte fragile che si sostanzia nella condivisione oggi
negata. "Dovremo ripensare il mondo"
Di Lorenzo Cerri
“Quando usciremo da questa sventura, non
saremo più gli stessi di prima. Anche il teatro dovrà cambiare, e non so come.
Per dirne una: chi oggi sottoscriverebbe un abbonamento? Quale tipo di
cartellone si potrebbe organizzare? E ci sarà una prossima stagione?”.
Direttore dello Stabile - Teatro Nazionale di Napoli, l’illustre regista
palermitano Roberto Andò riflette in questa intervista sul futuro di un’arte
che è stata colpita dal virus più che altre. E questo per la sua stessa natura.
È
vero, Andò?
Il teatro è un’esperienza di
partecipazione, incontro, condivisione. Perciò è ancor più mortalmente ferito. Oggi
non esiste la condizione per farlo, a meno di pensare... che so... a qualche
improbabile happening su una spiaggia, tra qualche mese, che assicuri comunque il
distanziamento sociale. Come dicevo, è difficile anche immaginare quando potrà
riprendere, perché sfuggire al contagio non è facile. C’è il rischio che
ritorni. Ecco perché molto dipenderà dalla velocità con cui appronteranno un
vaccino. Insomma, siamo dinanzi a un nemico che scompiglia tutto ciò che
abbiamo sempre fatto. È un momento epocale, in cui ci tocca riconsiderare tutte
le certezze cui finora ci siamo affidati. Dovremo ripensare non soltanto il
teatro, ma il mondo intero. Ecco, immagini un terremoto...
E
allora?
Questa pandemia non è un terremoto, è
peggio. Dopo le scosse, si ricostruisce.
Qui no. Il male è più profondo. Coinvolge tutto il mondo. E noi non possiamo sfuggire.
Scomodando un testo di Manlio Santanelli, non abbiamo uscite di emergenza. Dopo
un terremoto, puoi partire e andare in luoghi più sicuri. Qui dove vai? Il
virus è dappertutto. E noi eravamo totalmente impreparati. Il Covid 19 ci ha
colpiti anche nel momento di massima arroganza del genere umano, dimentico
della propria fragilità, convinto della propria onnipotenza.
C’è
stata una sottovalutazione.
Certo. Abbiamo sottostimato il rischio.
Il 22 febbraio ero alla Scala per la regia del Turco in Italia di Rossini. Il 23, giorno successivo al debutto, il
teatro è stato chiuso. Molti personaggi, anche piuttosto noti, mi hanno detto:
“Facciamo un appello, non è possibile che chiuda La Scala”. Nessuno pensava che
potesse accadere quel che è accaduto. Questa non è già arroganza? Un mese fa il
virus era in Cina e in un mondo globale era prevedibile che viaggiasse dappertutto,
e con l’alta velocità.
Dalla
sua esperienza di questi giorni, come sta reagendo il mondo del teatro?
La
preoccupazione è totale. C’è massima allerta. E prevalgono considerazioni improntate
al crudo realismo. Credo, e lo ripeto, che il vaccino sia lo strumento con cui
il teatro ritroverà la propria forza, seppure in un mondo cambiato e più povero;
recupererà la funzione che ha sempre avuto. Fino ad allora, bisognerà...
inventare.
Che
cosa?
Non lo sappiamo. Siamo ancora in mezzo
al guado. Già la stagione non esiste più. Forse è l’idea di stagione che
occorrerà mettere in crisi. Come la organizzeremo? Oggi il tempo è dettato dal
virus, non da noi. Quando sarà sconfitto, torneranno i cartelloni”.
E
la sua esperienza di queste settimane?
Ci sono aspetti pratici da affrontare, scritture
da annullare, prove da sospendere, ospitalità da rifiutare, e lavoratori da
proteggere. Anche i teatri sono enti economici.
C’è
un decreto del Governo.
E stanzia 130 milioni, da ripartire tra
cinema, prosa e lirica. Ora bisognerà individuare una linea d’azione comune.
Spesso ci riuniamo a distanza, noi direttori dei teatri pubblici, per discutere
sulla sua interpretazione e applicazione. Dovremo aprire un negoziato con il
Governo. Personalmente, la riflessione va anche oltre: penso al presente,
all’emergenza lavoro; e al futuro. Ma navighiamo a vista, e ora il futuro non
c’è.
E
gli esperimenti di teatro virtuale?
Abbiamo messo sui nostri canali social e
su YouTube i video e le foto di alcuni nostri spettacoli, registrati quando
sono andati in scena al Mercadante e al San Ferdinando, come Elettra di Hofmannsthal con la regia di
Andrea De Rosa, o ʼNzularchia
di e con Mimmo Borrelli. Poi, per la Giornata mondiale del teatro, il 25 marzo,
abbiamo aperto un’altra sezione virtuale, con un mio e altri interventi, che
sono una sorta di diario di quel che sta avvenendo. E il diario, si sa, è anche
una testimonianza, che lasciamo ai posteri, di alcune tracce di una civiltà. Sono
convinto che la riflessione oggi sia preziosa. Ma quel che vediamo su Internet
in queste settimane non è teatro. È un rito consolatorio. Esorcizza un vuoto.
E
cosa ha detto nel suo diario?
Come sostiene Kantor, non basta recitare,
a teatro bisogna trovare il luogo della vita. Stando relegati in casa,
costretti a una vita ridotta, è il compito che ci spetta: fare del teatro il luogo
della vita.
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